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ImageOpera prima, azzardiamo anche per importanza, dell’omonimo quartetto con la voce di Mr. Iguana Iggy Pop, all’epoca ancora Iggy Stooge. Era il 1969 e gli Stooges, insieme ai concittadini MC5, fondano quasi per caso quel “Detroit Rock”, portatore di germi proto punk. Primo di una fortunata trilogia (“Fun House” e “Raw Power” sono degni compagni del primogenito) che si concluderà con lo scioglimento del gruppo e la nascita di Iggy solista, “The Stooges” si impone all’ascolto come profetico manifesto della successiva scena musicale. Fin dalle prime note di “1969”, gli abbozzi di ciò che prenderà forma definitiva a metà degli anni ‘70 ci sono tutti: chitarre distorte, voci urlate, ricerca dell’imprevedibile. Indimenticabile poi “I Wanna Be Your Dog”che, per la voce arrabbiata e il ritmo incalzante, forse molti inserirebbero in un’antologia punk. La cosa che però colpisce di più, anche ad un primo ascolto, è la presenza di una canzone quale “We Will Fall”.
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ImageL’imponente figura di Guccini, in un bianco e nero senza mezzi toni, è colta dall’obiettivo in una posa meditativa, forse dubbiosa, che rappresenta bene il contenuto del disco; mentre “Folk Beat N.1” era penalizzato dall’alternarsi di grandi canzoni e brani ancora acerbi, in “Due anni dopo” le intenzioni del cantautore di Pavana sono più precise e cercano, nell’omogeneità sostanziale del repertorio, una collocazione personale, non lontana, a tratti, dal primo De André e dagli chansonnier francesi. Un diffuso malessere esistenziale ricorre nei testi di tutte le canzoni fatta eccezione per “Al trist”, strambo blues in dialetto posto a chiusura del disco, nel quale trova infine spazio l’ironia. La noia della vita di provincia, le prime delusioni adolescenziali e politiche, la crisi della coppia, il rapporto con i genitori; sono le vertenze più sentite in quegli anni; su questi temi, Guccini impernia tutta l’opera, utilizzando al meglio la sua già roboante scrittura, densa di immagini e ricca di parole, mai trita o banale.

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ImageNell'arco della sua carriera trentennale Tom Waits si e' costruito una reputazione invidiabile fondata non solo su un'etica artistica mai scalfita da tentazioni commerciali, ma soprattutto su una lunga serie di album di qualità elevatissima che lo hanno reso uno dei più grandi e distintivi geni musicali del ventesimo secolo. Questo disco rappresenta una svolta nel percorso artistico del maestro di Pomona. Gli arrangiamenti più accurati e meno legati alla musica nera differenziano profondante lo stile rispetto ai precedenti album editi dal binomio Asylum-Elektra nei quali Waits si presentava come eroe di club fumosi in cui trascinava la sua voce rauca e biascicata all''interno di una piccola orchestra che proponeva un particolarissimo ibrido di jazz e blues in atmosfere da film noir.
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ImageAlzi la mano chi non conosce almeno una tra  queste canzoni: You send me, A change is gonna come, Shake… Sono alcuni tra i più grandi successi di Sam Cooke, il grande cantante tragicamente scomparso esattamente 40 anni fa e ispiratore, tra gli altri, del grande Otis Redding. Quando incise questo disco, Cooke era all’apice della carriera, appena trentenne; una delle più belle voci ‘soul’ di tutti i tempi. Con l’aiuto di collaudati session men (Hal Blaine, Billy Preston, Barney Kessell e altri), nel giro di soli tre giorni, o forse notti a giudicare dal titolo, realizza un disco che si differenzia notevolmente dal resto della sua produzione: un progetto più intimo, rilassato con un occhio di riguardo per le proprie radici musicali e con la novità della mancanza di orchestra e fiati. I  musicisti sono bravissimi, il meglio in circolazione all’epoca, e dialogano piacevolmente con la voce del leader che non sbaglia una nota o un attacco.
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ImageNel 1980, quando era ancora percepibile l'eco del punk, gli Einstűrzende Neubauten, grazie all'album d’esordio “Kollaps”, la cui idea di fondo era produrre un sound inascoltabile, diventano una delle formazioni più importanti ed influenti dell’intera decade, imponendosi nell'ambito della ricerca rumorista. Tredici anni dopo i "Nuovi edifici che crollano" prendono le distanze da ciò che in passato era la loro forza. Dell'attitudine che precedentemente traeva ispirazione dal rumore, rimane solo un fugace sussurro che riaffiora di tanto in tanto come forma di disturbo. Con “Tabula Rasa”, il cui tema centrale è l'amore, la band di Blixa Bargeld si pone l'obiettivo di fare piazza pulita della cultura dell'immagine con otto brani ricchi di citazioni (letterarie e non) che inducono l'ascoltatore ad intraprendere un viaggio emozionale all'interno del proprio io. L'album possiede un'impronta ben definita in cui la tensione viene attuata con un'alternanza di silenzi ed esplosioni.

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ImageTutto sembrava stesse accadendo a New York: Patti Smith, Ramones, Televisone, Talking Heads. Ma qualcosa si stava muovendo anche nella fredda, inquinata Cleveland. Fra il 1974 e il 1975 nascono (e muoiono) i Rocket From The Tombs. Canzoni nervose che prendono spunto dagli Stooges aggiungendovi una dose debordante di isteria e dissociazione. Sciolto quel gruppo Cheetah Chrome va a suonare tipico punk nichilista con i Dead Boys, mentre David Thomas crea, insieme a Peter Laughner, i Pere Ubu (il nome deriva dall’”Ubu Roi” di Alfred Jarry). Escono una serie di singoli portentosi e temibili (li si ascolta nella raccolta “Terminal Tower”) a cui segue l’opera prima “The Modern Dance”. Considerato uno dei massimi capolavori del punk americano “intellettuale”,  il disco è in realtà teatro dell’assurdo trasferito nel bel mezzo del peggior degrado industriale e ambientale. Lo dimostrano i primi due brani, “Non-Alignment Pact”, introdotta da un perforante sibilo di sintetizzatore e poi resa accessibile da un ritornello che un po’ ricorda i Television, e “The Modern Dance”, sconnessa danza di possessione che viaggia sulla stessa lunghezza d’onda dei Talking Heads di “More Songs…”.
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ImageCon brillante gioco di parole, qualcuno definì il loro stile “Northern Soul-cialism”. Un altro gioco di parole era leggibile anche nel nome del gruppo: Redskins, ovvero “pellerossa”, ma soprattutto “skin rossi”. Non a caso, la storia del gruppo si svolge quasi tutta in parallelo cronologico ed emozionale con il lungo sciopero dei minatori britannici. Provenienti da Leeds, i Redskins si fanno notare a partire dalla fine del 1984 con una sequenza di singoli che giustificano la loro dichiarata aspirazione a suonare come un incrocio fra James Brown e i Clash. Quando l’agitazione dei minatori entra nella fase più drammatica i Redskins sono letteralmente sulle barricate: concerti gratuiti e benefit ovunque e persino qualche polemica con il Red Wedge di Billy Bragg e Paul Weller, accusati di troppa morbidezza.
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ImageGià ai tempi dei Fairport Convention, Ian (oggi Iain) Matthews amava la musica d’oltreoceano, le canzoni di Richard Fariña, Joni Mitchell, Leonard Cohen. Era lui a far sì che il gruppo suonasse come “i Jefferson Airplane inglesi”. Decide di passare alla carriera solista quando i compagni scelgono la strada del folk elettrificato, poi forma i Matthews Southern Comfort e, nel 1973, corona il suo sogno: va in California a incidere un disco con la produzione di Mike Nesmith e gli strumenti di alcuni fra i migliori sessionmen del country “illuminato” (Byron Berline, Red Rhodes).  Matthews canta con voce nitida e fraseggio impeccabile, mentre violino e pedal steel agiscono in tono sommesso e rassicurante. E’ il disco di un inglese in California, di un uomo di città trasferito in campagna; potrebbe essere goffo (o presuntuoso) e invece funziona.
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Image Rickie Lee Jones, nata a Chicago ma profondamente californiana per cultura e formazione artistica, è un connubio pressoché perfetto di sregolatezza, fragilità e grinta. Il suo disco d’esordio, che risale al ‘79, fu una magnifica sorpresa e spiazzò quanti vedevano in quella giovane musicista dalla bellezza sinuosa e magnetica null’altro che la luce riflessa del suo celebre compagno, Tom Waits. Le prime note di “Chuck E’s In Love”, il bellissimo brano d’apertura dedicato al poeta e musicista Chuck E. Weiss, fugarono ogni dubbio: il talento di Rickie Lee era, già da allora, davvero unico e per nulla artefatto. A distanza di venticinque anni quest’album è ancora in grado di incantare con la sua fascinosa sintesi di ballate jazzy e poesia, candore e inquietudine. 
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ImageÈ stata salutata con entusiasmo la ristampa su cd di “MonoTono” e “Kinotto”. Un entusiasmo che di solito si riserva ai classici. La cosa buffa è che gli Skiantos non avrebbero mai pensato (e nemmeno voluto, forse) diventare classici. Nella temibile, caotica, ma anche molto creativa Italia di fine anni ’70 il gruppo di Freak Antoni rappresentò lo sberleffo, l’irrisione e le loro canzoni parvero legate al momento e perciò destinate a non durare. In effetti furono  dimenticate sino a che il termine rock demenziale, con cui le si descriveva, non venne rispolverato in coincidenza con la grande ascesa di Elio e Le Storie Tese. Adesso gli Skiantos vengono  ristampati addirittura in lussuose edizioni digipack con diversi brani aggiunti. “MonoTono” è grezzissimo e punk mentre “Kinotto”, appena più rifinito, è di solito considerato il disco “new wave” del gruppo bolognese (in realtà un  suono davvero wave si ascolta solo in “Kakkole”). Sarebbe sociologia d’accatto  ipotizzare una “perenne attualità” degli Skiantos, anche se è vero che il loro ilare cinismo seppe anticipare il freddo ideologico ed emotivo degli anni ’80 e forse preconizzò l’”Emilia Paranoica” che di lì a poco avrebbero cantato i CCCP. Resta il fatto che “Kinotto” è, 24 anni dopo, un disco sorprendentemente piacevole da ascoltare.
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ImageRay Charles Robinson (questo il suo vero nome, accorciato per l’omonimia con il pugile) è conosciuto da molti per i suoi hit del periodo Atlantic, da “What’d I say” a “Hit the road Jack”, da tutti per “Georgia on my mind” o “Yesterday”, successi che lo hanno reso uno dei cantanti più celebri nel mondo. Ma accanto alla star che nel 1958, a soli ventisette anni, sconvolge il pubblico del gospel trasformando “I got a woman” in un portentoso successo rhythm and blues, c’è un Ray Charles meno noto, che l’anno seguente si dedica a “The genius of Ray Charles”: si tratta di un progetto che prevede un disco rigidamente diviso in due facciate, la prima con una big band, la seconda con un quartetto e una sezione d’archi.

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Image La scelta di parlare di DVD, quindi di suoni ed immagini insieme, offre la possibilità di riempire un “Angolo del collezionista” con un disco che rappresenti questo incontro. Una “colonna sonora”.Esistono vari tipi di colonna sonora: le musiche composte apposta per i film (il Signor Morricone, i pianoforti di “Amelie”), le compilation raffazzonate di canzoni già edite (per dare lustro alle immagini e restituire i riflettori alle melodie) o, infine, i colpi di genio. Quei miscugli di suoni, brani ed atmosfere che perfettamente raccontano del film e altrettanto perfettamente sono definite rispetto a se stesse. I brani scelti da Tarantino per “Le iene” e “Pulp Fiction”, il ritmo soul che accompagna la malinconia de “Il grande freddo” e, ovviamente, il caleidoscopio di suoni che fa da sfondo (costante) a Natural Born Killers di Oliver Stone.
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Image In copertina un portacenere pieno ospita una sigaretta fumante, vicino una copia chiusa della Bibbia, dietro una bottiglia di whiskey e un bicchiere che qualcuno non ha finito di bere.Così si presenta Whiskey For The Holy Ghost, secondo disco solista di Mark Lanegan, cantante degli Screaming Trees (formazione rock di Seattle) e menestrello delle parti scure dell’anima.Come a volte capita ai profughi del rock, Mark in queste canzoni segue la via della tradizione, quella della polvere e della frontiera americana; abbraccia il country e il blues e li aggiorna ad una voce nuova.
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Image Il 1956 per Sonny Rollins fu un vero e proprio ‘annus mirabilis’: iniziato il 4 gennaio con una sessione con Clifford Brown e Max Roach, gruppo del quale era appena entrato a far parte, si conclude il 16 dicembre con la seduta che frutterà il primo album per la Blue Note; in mezzo una serie di capolavori, da “Plus Four” – che contiene la celeberrima “Valse hot” – a “Tenor Madness” e “Rollins Plays For Bird”, più una serie di incisioni a nome di Miles Davis, Thelonius Monk e Max Roach. Proprio a metà di quell’anno, il 22 giugno, solo quattro giorni prima del tragico incidente automobilistico in cui persero la vita Clifford Brown e Richie Powell, Rollins entra in sala di incisione per quello che, se non è il suo album più bello, è certamente quello di più grande successo: “Saxophone Colossus”.

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Image  Marquee Moon è il prototipo, uno dei prototipi, del disco “epocale”. Lo troverete citato in centinaia di recensioni come parametro stilistico ed estetico, ricorrerà in infinite conversazioni del tipo: “..certo che dischi come questo non li fanno più…”, spunterà più o meno a proposito ogni volta che si racconta “il punk”. Ma Marquee Moon è anche un disco sommerso, un nome frequente ma un ascolto relativamente raro. Non ha raggiunto l’immortalità diffusa dei dischi di Beatles, Rolling Stones o Sex Pistols; dischi che chiunque ha sentito, almeno nominare, dischi che moltissimi sanno fischiettare. La musica dei Television parte da presupposti più intricati, un insieme di spunti provenienti dalla Francia dei poeti e dall’America delle metropoli o, più precisamente, di una metropoli: New York.  
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Image  Estate ’67, ovvero la festosa e ammaliante ”summer of love”, una stagione di grandi ideali e di illusioni che travolsero la società americana con straordinaria energia. Altri tempi, altra sensibilità culturale, altri aneliti di libertà. Ma la musica è sempre pronta a ricordare”come eravamo” e lo fa in modo nitido, ma, spesso, terribilmente impietoso. Per questo, il primo album dei Buffalo Springfield assume il valore di una testimonianza, evoca il ricordo di un’epoca irripetibile e magica. Stephen Stills e Neil Young sono i principali artefici di una band che racchiude la quintessenza dello spirito country-rock ma non disdegna le suggestioni psichedeliche che in quegli anni attraversano la California con il loro carico di ribellismo e creatività. La voce di Richie Furey domina buona parte dei brani, ma è soprattutto sul dualismo artistico di Stills e Young che si gioca il fascino di questo bel disco d’esordio.  
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Image  L’inverno 1969-70 fu piuttosto atroce per il Macca: aveva sperato fino all’ultimo di tenere i Beatles insieme, ma i suoi sforzi erano stati vanificati da un irremovibile Lennon deciso a chiudere con la sua esistenza da Beatles. Verso la fine d’ottobre si arrese all’evidenza e con l’unico aiuto della moglie Linda, incise nello studio casalingo il suo primo album solista. Solo alcuni missaggi vennero fatti ai primi del 1970 negli studi di Abbey Road prenotati sotto falso nome.  Si tratta di un disco molto particolare, tenero e affascinante nella sua essenza minimalista e nelle sue tinte naif. Paul suona da solo tutti gli strumenti e non utilizza tecnici del suono: è lui stesso a regolare la strumentazione di registrazione, la qualità audio sicuramente ne risente un po’ ma, per noi che amiamo la musica più della tecnologia per riprodurla, si tratta di un dettaglio d’importanza relativa. E questa musica, in alcuni episodi, è davvero superba.  
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Image A cavallo tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 l’Inghilterra digerisce l’onda del punk. Ubriaca e scossa dal suono nuovo, lo rielabora da diversi punti di vista tenendo vive ora le coordinate formali (i famosi “tre accordi” dei Sex Pistols), ora lo spirito di rottura che aveva caratterizzato l’intero “movimento”. Il risultato di questa “rielaborazione” è stata una generazione di musicisti incredibilmente originali e dotati, attraversata da mille stimoli diversi ma riconducibile ad un’unica matrice. Gruppi come Dexy’s Midnight Runners e Joy Division, cantanti come Billy Bragg e, arriviamo al punto, Paul Weller. Weller non viene da Londra, centro pulsante di tutto ciò che era “nuovo” e “punk” ma da Woking, un sobborgo con pochi abitanti e ancor meno prospettive per una carriera da musicista. Proprio quest’elemento di differenza, questo fascino per quello che accadeva nella capitale vissuto come un orizzonte lontano, rende la musica di Paul e del suo gruppo (i Jam) speciale.  
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Image Il Copacabana di New York non era un locale come tutti gli altri: situato all’angolo fra la Sessantesima e la Fifth avenue, vedeva alternarsi sul palco tutte le più grandi star dell’epoca, da Dean Martin e Jerry Lewis a Tony Benett e Nat King Cole. Non stupisce che un acerbo Sam Cooke nel 1958 (aveva appena abbandonato il mondo del gospel suscitando grande scandalo) ricevesse una fredda accoglienza da parte dal pubblico che si intratteneva al ristorante. Sei anni dopo, un’incredibile quantità di hit alle spalle, primo artista nero a raggiungere la vetta delle classifiche pop con “You Send Me”, Sam   Cooke torna al Copa facendo letteralmente impazzire gli spettatori presenti. Il racconto di quelle serate è in un disco da molti considerato un po’ troppo raffinato e commerciale e incapace di mostrare il vero Cooke, aspro e viscerale, di altre esibizioni di quel periodo; in realtà si tratta di uno dei dischi più influenti nella storia della musica black, autentico alter ego del “Live at the Apollo” di James Brown dell’anno prima.  
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Image I moltissimi fans e i rari detrattori concordano su un punto: i R.E.M sono una delle band più influenti e significative degli ultimi vent’anni. I celebri musicisti di Athens, sobria città dello stato della Georgia, hanno aperto strade sonore nuove e stimolanti ad un gran numero di giovani band. Per non parlare delle emozioni che la loro ammaliante sintesi di psichedelica, folk e rock ha regalato a chiunque ne sia entrato in contatto. Fatte queste doverose premesse, resta da stabilire quale, tra i numerosi episodi memorabili della discografia dei R.E.M, meriti particolare attenzione. Automatic For The People sembra, in quest’ottica più ludica che strettamente critica, uno dei migliori candidati. Realizzato nel ’92, l’album segue di pochi mesi il successo planetario di Out Of Time (quello di Losing My Religion o Shiny Happy People, per intenderci) e imprime alla band una svolta intimistica e poetica di grande intensità.  
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Image Si potrebbe discutere per secoli su cosa sia “un capolavoro” in musica, su cosa lo renda tale. Di certo i dischi che ambiscono a vario titolo a questa definizione sono pochi. Sono rari perché è sempre più raro un disco “tutto bello”, dove sia un’unica visione ad essere cantata. Coerente dalla prima all’ultima nota, intensa e forte perché unica e irripetibile. “Either/Or”, perdonate l’ardire, è un capolavoro. Un disco fatto di poco, chitarra e voce perlopiù, capace di raggiungere picchi fragili e perfetti. Stilettate acustiche al cuore che si susseguono senza tregua; poco più di mezz’ora per far crollare davanti ad un’intimità eccezionale ogni difesa critica. Elliott Smith rimane un nome “minore”. Lontano dalla grande fama e dall’immenso pubblico. Le sue melodie e i suoi versi di una purezza insieme dura e timida. La voce quasi un sussurro eppure decisa e secca. Il ritmo un fantasma eternamente indeciso se rivelarsi o rimanere nell’ombra.  
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Image Talvolta l’esigenza di misurarsi con il cambiamento, di superare strade artistiche ormai ben delineate si fa pressante. E allora capita che un eclettico musicista irlandese affascinato dal folk e dal blues voli in California e, ingaggiati alcuni eccellenti sessionman jazz, registri in un paio di giorni ben sedici ore di musica. Quel materiale darà origine a uno degli album più illuminati e significativi dei tardi anni sessanta: Astral Weeks. Van Morrison, all’epoca, è un giovane musicista già ampiamente baciato dal successo; con la sua band precedente, i Them, ha reso popolari anche in Europa la sonorità soul e rhythm’n’ blues. Ma Astral Weeks segna una svolta verso la profondità letteraria e la ricerca sonora. Sospese tra sogno e realtà, animate da un candore e da una forza evocativa straordinari, le canzoni di Astral Weeks, anche grazie alla magnifica voce di Van Morrison, aprono una breccia nel cuore e nella mente di chi ascolta. E lo fanno senza irruenza, affidandosi ad un incedere sonoro delicato e rarefatto eppure molto intenso.
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Image Disco storico questo, e per più ragioni. A cominciare da due nomi: David Thomas, poi Pere Ubu, e Stiv Bators, poi Dead Boys, e dai pezzi entrati nel repertorio dei due gruppi (“30 Seconds Over Tokyo” per i primi, “Sonic Reducer” per i secondi). Da non dimenticare poi che si ha tra le mani materiale rimasto inedito per quasi 30 anni. Non è definibile punk, se si pensa agli attuali esponenti del genere che, se eredi, hanno preso ben poco da Thomas, Bators e compari. E’ un disco che s’impone fin dal primo urletto di “Raw Power”, brano di prepotente impatto registrato nel febbraio 1975, con cui la band di Cleveland, onorando il proprio nome, fa capolino dalle tombe e rende omaggio al maestro Iggy Pop. Sono gli strumenti a fare da padroni qui, non il ritmo incalzante e “scatena ragazzini”, col quale, sovente, s’identifica il punk.  
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Image Dopo l’uscita dai Byrds, nel percorso un po’ confuso della sua produzione solista, Gene Clark ha prodotto dischi di diversa caratura, forse per il perdurare della sua dipendenza da droghe e alcol o, più probabilmente, per la scarsa fiducia riposta in lui dalle case discografiche. Innegabilmente l’ex Byrd era un artista dotato: scriveva le sue canzoni, le cantava splendidamente e sul palco la ‘bella presenza’ faceva il resto. Nonostante questo i suoi dischi non ebbero mai il successo che meritavano; come spiegare, ad esempio, le non eccelse vendite dello splendido “Gene Clark/White Light”? Per la produzione di “No Other”, dopo l’ennesimo cambio di casa discografica (la Asylum di David Geffen), ci furono mezzi e budget adeguati e un  produttore amico, anche se incline agli stessi vizi di Clark, Thomas Jefferson Kaye.  
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Image Qualunque cosa sia il “rock indipendente”, da qualunque cosa sia da considerarsi “indipendente”, un fatto è certo: i Pixies ne fanno parte. E non parliamo di comparse. Black Francis, David Lovering, Kim Deal e Joey Santiago hanno consegnato ai posteri una delle formule definitive per definire questo tipo di rock defilato e sfuggente, deciso come uno schiacciasassi e dolce come una ninnananna. Surfer Rosa è l’esordio sulla lunga distanza del quartetto di Boston, mezz’ora abbondante di musica che racconta già una personalità ed una compattezza difficili da raggiungere in anni di carriera. Surfer Rosa è un attacco micidiale che si nutre della distorsione della chitarra e del passo deciso della sezione ritmica per disegnare arabeschi di suono, ed è cosa assai rara, allo stesso tempo cerebrale e coinvolgente: freddo e insieme definitivamente “sentimentale”.  
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Image Berry Gordy fonda la Tamla Motown nel 1959 con l’obiettivo di produrre “The sound of young America”. Il progetto è ambizioso, soprattutto perché sottintende che sia la black music a incarnare questo sound; ma l’etichetta di Detroit (la storia della musica nera passa attraverso le città degli States, ognuna con il suo suono ben definito) riesce nell’intento di trasformare il rhythm and blues in una musica buona anche per i bianchi. Il suo principe incontrastato è Marvin Gaye: la voce chiara e sensuale riecheggia Sam Cooke e nel 1968 “I Heard Through The Grapevine” straccia ogni primato di vendita. Ma in piena era nixoniana il regno dorato del soul comincia ad andare stretto al ragazzo di Washington: il Vietnam, le tensioni razziali, le prime istanze ecologiste lo portano a interrogarsi su quello che sta accadendo.
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ImageGennaio 1968, prigione di Folsom, Stati Uniti. “Hello, I’m Johnny Cash”, così comincia il concerto dell’Uomo in nero davanti ai detenuti di Folsom; così comincia anche uno dei dischi dal vivo più diretti ed efficaci mai incisi. Normalmente la riuscita di una registrazione “live” dipende dai musicisti; dagli arrangiamenti, dalla convinzione con cui si attaccano le canzoni, dalle variazioni più o meno riuscite rispetto alle versioni in studio. Il concerto a Folsom Prison vive invece di una dialettica potentissima tra pubblico e cantante. Le canzoni, in primo luogo le parole, parlano senza retorica di prigione, privazione, nostalgia e morte; davanti a uomini che quotidianamente vivono privati della loro libertà. La risposta a questa tensione, che possiamo carpire solo da quegli applausi lontani, congelati per sempre da un registratore, è incredibile: costruisce intorno alle canzoni un teatro splendido e vivo dove risuonare, distante eppure rinchiuso dagli odiati muri del carcere.  
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Image Nel 1970, quando la discografia ancora concedeva spazi ad inquieti talenti, Nico pubblicava il terzo album solita "Desertshore". Modella preferita di Chanel, icona nella factory di Andy Warhol, cantante nell'epico primo lavoro dei Velvet Underground, “sorella spirituale” di Jim Morrison, con cui condivise tumultuose esperienze psichedeliche e per il quale -si narra- arrivò a tingere i lunghi capelli biondi di rosso fiammeggiante, Nico attraversò la scena musicale newyorkese degli anni '60 con abbacinante fulgore. L’aiutarono l'indiscutibile fascino e le prestigiose frequentazioni, tra le quali va ricordato un Bob Dylan da lei reclutato a baby sitter del figlio Ari. Ma Christa Paffgen (questo il suo vero nome) fu anche artista carismatica e stupefacente, almeno   prima che il crescente consumo di droghe ne reclamasse amorosa dedizione per un ventennio. 
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Image La tempesta brit-pop sarebbe scoppiata nel 1994 con quel primo lampo rappresentato dal singolo d’esordio degli Oasis, “Supersonic” e da un album “generazionale” come “Parklife” dei Blur.  Eppure l’anno prima tutto pareva così diverso. La cultura rave da un lato e il grunge dall’altro dominavano la scena. Persino un disco di grande successo quale l’opera prima degli Suede si compiaceva di creare intorno a sé un certo alone elitario. Nel 1993 esordivano anche gli Auteurs di Luke Haines, artista  consapevole del proprio talento e della propria intelligenza e presuntuoso abbastanza  da volerli far conoscere al grande pubblico. Naturalmente non  riuscì nell’impresa, anche se la critica specializzata riconobbe lo splendore melodico classicamente inglese di “New Wave”.
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Image Non ho mai amato troppo la musica country. Ho sempre condiviso la visione dell’inferno secondo Stephen King: un luogo caldo dove si mangia solo pollo fritto e si ascolta solo country. Per cui il mio amore per questo disco travalica il genere da cui deriva: qui il diavolo in persona ci ha messo la coda. L’ascolto dell’opera prima dell’ex modello  Jim White non rievoca placidi bivacchi di pacifici quaccheri, né tantomeno assolate highways percorse da grassi e unti camionisti, no, qui siamo da un’altra parte. Avete presente quelle leggende Old America frequentate da cavalli senza testa e oscuri riti iniziatici indiani? “Wrong-Eyed Jesus” ne propone tutta la gotica inquietudine; qui non si narra di mogli lasciate a casa per andare a caccia di pelli, né si cantano le lodi al Signore, i luoghi comuni del genere sono molto distanti da queste tracce dove albergano, invece, strane fanciulle cieche in attesa di giornate giuste per seguire un tornado, magari in compagnia di un prete morto.
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Image Talvolta mi capita di rovistare in un angolo particolare della mia collezione, quello riservato ai dischi acquistati in gioventù e che giudico non particolarmente memorabili o importanti. Poi ne prendo uno a caso e lo ascolto per vedere se ho preso un granchio cassando qualcosa che, invece, merita di migrare verso zone più nobili dei miei scaffali. Giusto in questi giorni, complice forse il clima vacanziero,  ho riascoltato con piacere “How Dare You” dei 10cc, giacente immobile da almeno un paio di lustri nella “zona morta” di cui sopra. Il loro è  godibilissimo “brit-pop” ante-litteram, a metà tra Beatles, Kinks e Queen (periodo “Night At The Opera”) con una spolveratina di BeeGees di fine ’70. La scrittura dei brani è più che buona, soprattutto laddove il gruppo capitanato da Graham Gouldman (autore della celebre “No Milk Today”, antico anthem degli Herman’s Hermits) abbandona certe atmosfere allegrotte, particolarmente evidenti nel brano che apre il disco “I Wanna Rule The World”, per infilare una serie di pregevoli e terse ballate alla Paul McCartney di “My Love” ma, a ben vedere, più fresche e meno stucchevoli.  
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Image I Flying Burrito Brothers sono quello che si usava chiamare un “supergruppo”: incontro di personalità e talenti “singoli” luminoso nel suo esplodere e veloce nel disgregarsi. Gram Parsons, cowboy metropolitano e teorico della “Cosmic American Music”, portava dentro un grande amore per il suono delle radici, il “country”, e per la suggestione del rock che all’alba di quei lontani anni ’70 diventava ufficialmente anticonformista e “ribelle”. Chris Hillman era un “Byrd” titolare e, accanto a Roger McGuinn, aveva già esplorato i meandri del suono degli anni ’60 prima di approdare anch’egli al country con l’album “Sweetheart Of The Rodeo” (anche Parsons in formazione con i Byrds).  
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Image Il fatto che “On The Beach” sia stampato per la prima volta su cd 29 anni dopo la pubblicazione rappresenta un piccolo miracolo estivo. Nella stagione delle vacanze e del riposo, tradizionalmente il “mercato” si ferma; escono pochi dischi, si presta poca attenzione. L’estate 2003, oltre che per le migliaia di fotografie scattate in giro per il mondo, sarà ricordata da qualcuno anche per questo piccolo supporto digitale, finora solo immaginato. L’album arriva a completare la cosiddetta “trilogia del dolore” di Neil Young insieme a “Time Fades Away” e “Tonight’s The Night”. Erano gli anni ’70 e, con i brandelli del decennio precedente che marcivano davanti ai suoi occhi, Neil attraversò un periodo di profonda crisi personale, esasperato dalla perdita di due compagni di strada e di musica sull’altare dell’eroina. 
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Image La migliore sponsorizzazione è stata offerta a Zevon dall’amicizia con Jackson Browne, che lo ha spinto e sostenuto fin dagli inizi di carriera anche eseguendo, dal vivo, molte sue composizioni. In realtà il biondino che ci guarda torvo dalla foto di copertina è di tutt’altra pasta; il nostro ha la stoffa del rocker, la musica è dura, mentre i testi, molto originali, sono spiazzanti per i temi che affrontano; le coordinate entro le quali si muove l’immaginario zevoniano sono quelle relative ad un certo cinema d’azione tipicamente americano e agli articoli di cronaca nera. Con la sua voce profonda Zevon racconta storie dure popolate di personaggi sgradevoli, anche se il tutto è stemperato da una vena ironica.
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Image Un gruppo di giovani scozzesi che, mentre la nazione tornava alla ribalta mondiale per il pop agrodolce di Belle & Sebastian,  esordiva con settanta minuti di torrenziale elettricità. Questo sono i Mogwai. L’anno era il 1998. Settanta minuti che chiamavano in causa, vicino a melodie dolcissime, i colori abbaglianti dei My Bloody Valentine e il rumore bianco dei Sonic Youth, i bassi profondi dei Joy Division e l’etica intransigente del punk rock. Neanche una parola ad accompagnare quei suoni, solo una voce piccolapiccola che sussurra di musica e stelle prima che cominci il disco. Rock strumentale (!) che riesce a svegliare pubblico e critica mentre, stupiti, salutano l’arrivo di questa strana combriccola caratterizzata da un senso di gioco che permea ogni cosa, tranne le canzoni.  
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Image Nel 1964 John Coltrane è un musicista affermato: dopo aver lasciato Miles Davis ha inciso per l’Atlantic una serie di album – Giant Steps, My Favourite Things, Olè – di rara bellezza; dal 1961 è sotto contratto per la Impulse – l’etichetta nata per documentare The new wave in jazz! – e il suo gruppo, formato da McCoy Tyner al piano e Elvin Jones alla batteria, con l’arrivo di Jimmy Garrison al contrabbasso ha trovato una definitiva stabilità. In quell’anno a giugno incide Crescent, misconosciuta gemma che preannuncia le sedute del 9 e 10 dicembre durante le quali nascerà A Love Supreme: in realtà, benché suoni semplicissima all’ascolto, la suite più famosa della storia del jazz è stata elaborata lungamente da ‘Trane’. Il sassofonista ha richiesto il controllo completo dell’opera tanto che l’Impulse A 77 sarà l’unico disco dell’etichetta ad abbandonare il consueto nero e arancio per un sobrio e impeccabile bianco e nero.
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Image Intanto una curiosità: il doppio “The Beatles” noto ai più come “L’Album Bianco” per la bellissima copertina completamente candida, sarebbe stato intitolato “Doll’s House” se non fosse uscito qualche tempo prima questo folgorante debutto dei Family, soffiando l’idea ai Fab Four. La band, costituita da musicisti di grande tecnica tra i quali quel Rich Grech al violino che poi ritroveremo nei Blind Faith in compagnia di Clapton, Winwood  e Ginger Baker, nel 1968 dà alle stampe uno dei primi esempi di “progressive”. No ragazzi, niente a che vedere con le lungaggini barocche di dubbio gusto alla Rick Wakeman, qui il termine “progressive” va inteso nel suo pieno (e nobile) significato etimologico. Progredire, “andare oltre”, oltre la forma canzone, oltre l’immediata identificazione di genere, oltre quanto proposto fino a quel momento.  
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Image Bisognerà pur rivedere il giudizio complessivo sugli anni ’80 sonori, soprattutto in Gran Bretagna, magari scegliendo una prospettiva diversa da quella consueta che li associa solo al trionfo dell’elettronica di consumo. Proprio per questo si era parlato, qualche tempo fa, di “Rattlesnakes” di Lloyd Cole e proprio per questo si cita ora un personaggio che fu ancor meno attento alle tendenze del momento: Martin Stephenson. Per entrambi il punto di partenza era la melodia nitida e ben costruita, ma se Cole amava fare l’intellettuale (la cosa gli riusciva bene, d’altronde), Stephenson preferiva mettere in mostra tutta la sua passione per certi suoni “primari”: dal jazz sofisticato di “Coleen”, al ragtime strumentale di “Tribute To The Late Reverend Gary Davis” sino al country & western, allora disperatamente fuori moda, di “Candle In The Middle”.

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Image Il 1967 è universalmente ricordato come l’anno psichedelico per eccellenza. Sull’onda del “Pepper” beatlesiano, uscito il primo giugno, molti artisti allora in circolazione se ne venirono fuori con qualcosa di acidamente colorato. Non tutto fu il prodotto di onesta ispirazione, in qualche caso si trattò di bieca necessità commerciale, pure gli Stones ci provarono dimostrando al mondo che quello non era esattamente il loro terreno artistico. Per fortuna però i grandi dischi nel 1967 furono molti. Steve Winwood in quella magica estate aveva 19 anni e una già onorevole carriera nello Spencer Davis Group alle spalle. Stanco del suo ruolo in quell’antica formazione, insieme a Dave Mason, Jim Capaldi e alla buonanima di Chris Wood, diede vita a “Traffic” una delle più apprezzate band del periodo.
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Image  Il fascino “diverso” di questo disco d’esordio degli Eels, quel qualcosa che ci convince a celebrarlo a soli otto anni dalla pubblicazione, è già evidente nel titolo e nella copertina dell’album. Beautiful Freak, “Splendido mostro”, dove il mostro è semplicemente chi vive ai margini, chi non riesce ad inserirsi. Melodie dolci e arpeggi delicati accompagnano storie piccole di solitudini e ansie, donando al sapore a volte amaro dell’introspezione il volto invitante di una caramella. Sublime e grottesco. Come la foto di copertina: un fiore appoggiato per terra, una bambina accucciata con gli occhi spalancati, troppo. Con gli occhi che occupano una porzione di viso eccessiva e “inquinano” il quadretto, elemento anormale in un’immagine altrimenti banalmente dolce.  
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Image  Quando si parla di stretto legame fra società e arte si pensa immediatamente agli anni ’60, alla musica come rappresentazione della prassi rivoluzionaria e così via. In realtà oggi sappiamo che per molti  la “posa” contò più della reale  convinzione politica. Passando invece a considerare la Gran Bretagna  anni ’80 la relazione  risulta meno ovvia ma  assai più salda. Se  la competitività indotta dal thatcherismo portò con sé il trionfo delle pop band di plastica, decisiva fu anche la nascita di un suono che da un lato rifiutava le macchine elettroniche in favore delle chitarre e dall’altro cercava referenti in ambito letterario. Un tentativo di fuga da un presente popolato di ricchi arroganti e  disoccupati senza futuro  che tuttavia non rinunciava in partenza al successo commerciale “intelligente”. Il riferimento è  ovviamente agli Smiths ma  anche a “Rattlesnakes”, scintillante opera prima di Lloyd Cole & The Commotions.
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Image My Aim Is True, disco d’esordio di Elvis Costello, esce nel 1977; un anno importante per la Musica in generale. L’anno dell’esplosione punk, dei Sex Pistols che fanno arrabbiare la regina e affascinano quasi tutti gli altri, l’anno del fermento e dello stacco tra i rockettari con i capelli lunghi e l’assolo facile e i giovani “sbandati” del “tutti possono farlo” e “non c’è futuro”. Elvis s’inserisce in questo panorama in mutazione in maniera del tutto personale: non è punk perché porta occhiali e cravatta, e la sua musica vive di mille rimandi lontani dai tre minuti di canonica rabbia; è punk perché è giovane, scontento e schifato per quello che gli sta attorno (l’Inghilterra, sostanzialmente).  
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Image All’indomani della pubblicazione del fondamentale “Pet Sounds” (1966), escludendo l’attimo di risalita con l’hit “Good Vibrations”(1967), la popolarità dei Beach Boys andò in caduta libera. Considerati superati, fuori moda e scioccherelli al cospetto della nuova musica californiana (Grateful Dead e Jefferson Airplane in testa), il combo diretto dal geniale Brian Wilson sfornò a fine anni ’60 alcuni gradevolissimi e all’epoca snobbatissimi album di sapore pop-lounge che oggi possono fare la gioia di chi si ubriaca di Belle & Sebastian, Salako, Pearlfishers et similia.: “Friends” del 1968, è sicuramente il più riuscito del lotto.  
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Image Proprio ora che l’elettronica è divenuta  una delle travi portanti del suono rock, vale la pena andare a cercare gli antecedenti della fusione fra suoni naturali e “artificiali”. In genere a venire citati sono  i “macchinismi” dei tedeschi Kraftwerk e Tangerine Dream o, in ambito ben più divulgativo, Jean-Michel Jarre, mentre i cultori dell’underground preferiscono citare i meno noti Silver Apples e Beaver & Krause. Quasi nessuno menziona invece Pierre Henry, il compositore francese d’impostazione classica che fu il padre della cosiddetta musica concreta, ovvero la commistione fra strumenti tradizionali, suoni d’ambiente e interventi elettronici. Chi, a questo punto,  si immagini una cosa estremamente seria si stupirà non poco al cospetto dei dodici minuti di “Messe Pour Le Temps Présent”, suite composta da Henry per l’omonimo balletto messo in scena da Maurice Béjart al Festival di Avignone nel 1967.
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Image CLAUDIO LOLLI – IL PARTO DELLE NUVOLE PESANTI -  Ho visto anche degli zingari felici (Storie di note 2003)

È accaduto, in tempi recenti, che un intero album sia stato rivisitato, canzone dopo canzone, da artisti che volevano rendergli omaggio. A volte è invece capitato che un solista o un gruppo abbiano rivisto in chiave nuova brani sparsi del proprio repertorio. Più raro il caso di qualcuno che abbia  reinciso un proprio album dall’inizio alla fine. Lo ha fatto il cantautore bolognese Claudio Lolli con  “Ho visto anche degli zingari felici”. Ispirandosi per il titolo a un film di Emir Kusturica, Lolli concepì nel 1976 un lavoro a tema che si distaccava per suoni e capacità propositiva dalle plumbee visioni dei tre album precedenti. Al centro di tutto sta la piazza, che è poi Piazza Maggiore a Bologna, luogo principe dei momenti d’incontro (“Primo Maggio di festa”), delle discussioni (“Anna di Francia”) e della rabbia (“Piazza bella piazza”, dove viene descritto il funerale delle vittime dell’attentato al treno Italicus).   
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ImageEra l’estate del 93, ho un vago ricordo di un video che fermava il mio annoiato e frettoloso zapping televisivo prima di ritirarmi nella mia camera anecoico-stereofonica: una foresta vetrificata, in colori lisergici, e un cupo, ossessivo giro di timpani sul quale un’aliena cantava dell’imprevedibilità irresistibile del comportamento umano ... Björk, quella bimba sbarazzina dei Sugarcubes, ora stava per conto proprio e questo era lo stranissimo singolo: “Chissà il disco com’è ...” Era “Debut”, e quando entrò ufficialmente nella mia camera anecoico-stereofonica girò sul lettore per diversi giorni, perchè non c’era solo “Human Behaviour”, ma un pozzo di sorpresine: le percussioni metalliche e gli archi orientali di “Venus As A Boy”,  l’arpa soave di “Like Someone In Love”, gli incisi di fiati simil Henry Cow nell’ipnosi di “Aeroplane” e nel raccoglimento di “The Anchor Song”, l’accogliente, rassicurante “Come To Me”, e soprattutto, quella vocina malferma e sdrucciolevole, sempre pronta a saltare di ottava inseguendo una linea melodica inaspettata.
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ImageI Fairport Convention piacevano per le chitarre elettriche, la Incredible String Band per l’evidente  “apporto” psichedelico. Più difficile da spiegare che cosa rendesse  i Pentangle così attraenti agli occhi dei rockisti di fine anni ’60. Fra i tre grandi nomi del cosiddetto folk-rock britannico (gli Steeleye Span sarebbero arrivati dopo)  il quintetto guidato da Bert Jansch e John Renbourn era quello che proponeva l’approccio più quieto e, in un certo senso, più intellettuale: repertorio che in parte attingeva alla tradizione popolare, suoni quasi del tutto  acustici, sottile gioco di chitarre venato di blues, una sezione ritmica (Danny Thompson e Terry Cox)che attingeva al jazz più forbito e una cantante dalla voce limpida e bellissima (Jacqui McShee) ma dall’approccio quasi timido.
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ImageGli Xtc rappresentano certamente un’isola poco esplorata nel vasto arcipelago del pop inglese; agli inizi, confusi nel bel mezzo della rivoluzione-involuzione del punk-rock, disorientarono parecchio la critica ed il pubblico, quando pubblicarono, nel 1978,  due dischi, White music e Go2, entrambi nevrotici , obliqui e difficili da catalogare (tanto che in Italia il primo uscì con un vistoso adesivo con la scritta “Punk”). Tuttavia, in quegli album già s’intravedevano le evoluzioni della musica del gruppo guidato da Andy Partridge , chitarra, e Colin Moulding, basso. Dopo l’abbandono del tastierista Barry Andrews, sostituito dal chitarrista Dave Gregory, le melodie beatlesiane, unite a moduli ritmici innovativi e a testi ironici ed “intelligenti” acquistano forma ed energia in Drums & Wires (1979), ma è con il  successivo Black Sea (1980) che si rivelano nel loro aspetto più smagliante.
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Image2 marzo 1959, New York, 30a strada; nei Columbia studios sta per iniziare una seduta d’incisione che farà la storia del jazz. Miles Davis ha convocato due pianisti: Bill Evans che ha appena lasciato il gruppo per formare un trio con Motian e LaFaro e il disorientato Wynton Kelly che lo ha sostituito. Davis non si cura di spiegargli che ha pensato  “Kind of blue” per il limpido pianismo di Evans; si limita a distribuire un po’ di semplici schemi per indicare quello che va eseguito e chiede di registrare alla prima: vuole spontaneità in quello che sarà suonato. Il primo brano è “Freddie Freeloader”, l’unico con Kelly al piano; poi “So What” e “Blue In Green”.
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ImageIl decennio passato ha assistito all’ascesa e al declino di innumerevoli stili musicali, fatui revival e infiniti passaggi di meteore delle quali nessuno più si ricorda. C’è stato però un’autore che, lontano da mode e pose superficiali, con un solo disco ha creato un vuoto assoluto intorno a sè, lasciando con la propria prematura morte un segno indelebile. Figlio del grande cantautore Tim Buckley, autore negli anni Settanta di una manciata di dischi nei quali si fondevano psichedelia, folk e improvvisazione per creare una musica tra le più originali di sempre, Jeff, apparentemente incurante di un confronto con la greve figura paterna, ne eredita comunque la voce espressiva, delicata e potente. Appena si ascoltano le prime note di Mojo Pin, la canzone che apre Grace, ci si accorge immediatamente del lirismo che pervade l’intero disco, e ci si lascia rapire da una voce straziante ed emozionante fuori dal tempo.

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