L’imponente figura di Guccini, in un bianco e nero senza mezzi toni, è colta dall’obiettivo in una posa meditativa, forse dubbiosa, che rappresenta bene il contenuto del disco; mentre “Folk Beat N.1” era penalizzato dall’alternarsi di grandi canzoni e brani ancora acerbi, in “Due anni dopo” le intenzioni del cantautore di Pavana sono più precise e cercano, nell’omogeneità sostanziale del repertorio, una collocazione personale, non lontana, a tratti, dal primo De André e dagli chansonnier francesi. Un diffuso malessere esistenziale ricorre nei testi di tutte le canzoni fatta eccezione per “Al trist”, strambo blues in dialetto posto a chiusura del disco, nel quale trova infine spazio l’ironia. La noia della vita di provincia, le prime delusioni adolescenziali e politiche, la crisi della coppia, il rapporto con i genitori; sono le vertenze più sentite in quegli anni; su questi temi, Guccini impernia tutta l’opera, utilizzando al meglio la sua già roboante scrittura, densa di immagini e ricca di parole, mai trita o banale.
Nel valzer-musette de “Il compleanno” sono magistralmente descritte le mancate aspettative di una festa, mentre “Vedi cara”, che per il suo tono vagamente paternalistico fu tacciata di maschilismo, analizza lo struggimento per un rapporto sentimentale senza più acuti che sopravvive a stesso; nella “Primavera di Praga”, invece sale alto il grido della denuncia per la tragica fine dell’esperienza riformatrice e il conseguente suicidio di Jan Palach. “L’ubriaco” inaugura una serie di ritratti, che proseguirà nella produzione successiva con canzoni come “Il frate”, “Il pensionato”, “Samantha” e molte altre a riempire un’ideale galleria di varia umanità osservata nella fragilità della vita quotidiana. (Fausto Meirana)