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Image“Si fanno chiamare ‘amore’, ma il nome più adatto a loro sarebbe ‘odio’”. La celebre frase di Peter Albin dei Big Brother fotografa perfettamente la contraddizione insita nei Love e in tutta la sorridente stagione floreale. Era infatti nel gruppo guidato da  Arthur Lee  che, a dispetto del nome prescelto,  risultava evidente quanto lieve potesse essere lo scarto fra psichedelia e psicosi: “Le notizie di oggi saranno i film di domani/ E l’acqua è diventata sangue/ Se non ci credi, vai ad aprire il rubinetto” (da “A House Is Not A Motel”). Facile attribuire una visione così fosca ai troppi acidi che Lee  consumava nella sua casa isolata sulle colline di Los Angeles, più affascinante (e simbolicamente plausibile) leggervi un’anticipazione della deriva tragica che avrebbe caratterizzato la fine degli anni ’60 americani, dalla strage di Bel Air ad Altamont con, sullo sfondo, l’escalation della guerra in Vietnam: “Sono seduto sulla collina/ E vedo morire tutti/ Mi sentirò molto meglio dall’altra parte” (“The Red  Telephone”).
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Image Se la copertina irresistibilmente parodistica non bastasse a dissuadervi dall’idea che questi, ormai attempati, signori siano stati lontani anni luce dalle accuse di satanismo che furono loro rivolte all’epoca, vi consiglierei la visione di una puntata di “The Osbournes”, la sit-com di MTV, dove un  ballonzolante rimbambito coperto di tatuaggi si aggira per casa tra una selva di animali e familiari a dir poco bizzarri. Ebbene, il buon vecchio Ozzy ed i suoi soci sono stati una delle pietre angolari del grande edificio hard, e non solo. Dai rintocchi di campana e dai tuoni di “Black Sabbath”, il brano che dava il titolo al primo album, si dipana l’intera storia del dark, del doom, del gothic e del black.
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Image Antiepico, frammentato, disilluso. E al tempo stesso teso, brillante, intelligente. Ancor più di “You’re Living All Over Me” dei Dinosaur Jr., “Slanted & Enchanted” è il vero specchio di un’intera generazione americana, quella “slacker”. Specchio e non “manifesto” perché qui si parla di ragazzi e ragazze incapaci di elaborare sotto forma di ideali un quotidiano fatto di college, tanta televisione e piccoli lavori di scarsa soddisfazione (illuminante al riguardo è il film “Clerks”). Un deserto culturale ed emotivo? No perché, come ai tempi della generazione che possedendo troppi ideali  li aveva disfatti tutti, è  ancora una volta la musica a fornire il supporto descrittivo necessario.
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Image Un disco di fronte al quale si resta indifesi. E dire che, come la copertina della ristampa su cd suggerisce, questo è un disco fatto d’acqua e perciò potrebbe evaporare in un attimo. Invece, da quasi trent’anni, “Rock Bottom” stupisce chiunque lo ascolti, compreso chi all’epoca della sua pubblicazione non era ancora nato. Un’opera inclassificabile, unica; un esempio di quel sacro graal a cui molti ambiscono: la musica totale. Quasi improponibile è qualsiasi termine di paragone, a parte forse il Tim Buckley di “Starsailor” per la struttura completamente “altra” dei suoni. Ma se lì vive la rabbia nei confronti degli elementi, quasi una prometeica ricerca del fuoco, qui si viene calati in una dimensione sospesa, prenatale e, ancora una volta, acquatica (“Sea Song”, ovviamente).
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ImageGli Smiths sono la formazione che ha dato voce definitiva al romanticismo pop, alla ricerca disperata del benessere attraverso l’affermazione di sé, un “sé” personale e diverso da tutti gli altri e allo stesso tempo condiviso e universale. La magia degli Smiths nasce dall’incontro di due sensibilità diverse, quella di Stephen Patrick Morrissey, istrionico cantante e raffinato autore dei testi, e quella di Johnny Marr, personalissimo chitarrista e autore delle musiche. Negli anni ’80 appestati dallo yuppismo e dal pop sintetico, i quattro di Manchester (insieme a Morrissey e Marr, Andy Rourke e Mike Joyce, rispettivamente basso e batteria) propongono qualcosa che va oltre la musica, un misto di chitarre tintinnanti, melodie memorabili ed esistenzialismo aggiornato, conditi con un’estetica affascinante e senza tempo.  
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Image A inizio  carriera gli Stiff Little Fingers, per promuovere un singolo, pensarono bene di spedire ad una casa discografica un demo in forma di pacco incendiario, analogo a quelli inviati dall’IRA in quello stesso periodo; non si conosce la reazione del destinatario, ma il gruppo non ebbe difficoltà a siglare poco dopo un contratto con la Rough Trade per un album d’esordio, che, forse in omaggio a una tanto atipica forma di autopromozione, venne chiamato Inflammable Material. Di notevole impatto anche la copertina  che riproduceva un imballo di sicurezza per prodotti chimici.
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Image Chiunque abbia subito il fascino del clima libertario, utopico e trasognato dell’America degli anni sessanta, sa che i Byrds sono un gruppo  imprescindibile, forse una della icone artistiche più  significative di un’ epoca ormai avvolta nel mito. Nella band sono transitate, tra alterne vicende, alcune delle menti più brillanti del panorama musicale della west coast e non c’è modo di pensare ad un periodo così ricco di fermenti artistici e sociali senza che la musica dei Byrds si imponga, magari inconsciamente, come una colonna sonora ideale. Difficile individuare una “gerarchia” nella loro produzione discografica, ma certo Mr. Tambourine Man è un album d’esordio folgorante e, per molti aspetti, epocale.
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ImageSembrava un disco del qui e ora, “Parklife”. Specie per quell’inizio così furbetto, “Girls & Boys”, inno della gioventù british, tutta pallore e pillole, che noleggiava charter interi per passare una bella serata a Ibiza. Risentita ora, la canzone  non fa certo l’effetto di un reperto d’epoca, anzi suona ruvida come piace a molte giovani bande neo-qualcosa d’oggi (che darebbero chissà che per azzeccare un ritornello altrettanto killer). Ma è tutto l’album ad aver assunto, a quasi dieci anni di distanza, i contorni della classicità, ad aver acquisito il ruolo di tappa decisiva della britannicità musicale, sulle orme di Kinks e  Jam (en passant: per questo decennio non si intravede ancora nulla di altrettanto pregnante).
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ImageSin dai primi passi di carriera Stan Ridgway ci ha presentato la sua figura di poeta-cow boy trasportato nella follia, nel disagio e nelle paure ancestrali della grande città. Il sogno del vecchio uomo del west si scontra con la messinscena quotidiana in un duello alla Sergio Leone: da un lato il dolente recupero di una frontiera mitica dall’altro la rabbia della vita moderna. Polemico e lucidamente folle già con i Wall Of Voodoo (soprattutto nel classico album “Call Of The West”), Ridgway aveva saputo far propria la lezione morriconiana producendo un suono nuovo e originale al quale aggiungere il suo inimitabile marchio di fabbrica: la voce.
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ImageNel 1976, data di uscita di questo album, il canadese Bruce Cockburn aveva già all’attivo sei prove convincenti (su tutte “Night Vision” del 1973 e “Salt, Sun & Time” del 1974) dalle quali si evincevano le grandi doti di chitarrista e la feconda ispirazione nei testi,  un misto di spiritualità e lirismo nutrito probabilmente dalla contemplazione dei grandi paesaggi naturali della madrepatria.
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ImageParlando, o scrivendo, di musica si può anche essere travolti da un attacco di sfacciata  partigianeria e allora diciamo senza esitare che con Waiting For Columbus i Little Feat hanno realizzato uno dei dischi live più smaglianti e memorabili della storia del rock. Sintesi perfetta di quella mistica della strada cosi profondamente radicata nel rock americano degli anni ’70 e di un’intelligenza musicale di rara acutezza, Waiting For Columbus sfodera energia, passione e talento.
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ImageQuesta  bella e accurata ristampa libera “Liege & Lief” dal peso della storia. Il capolavoro assoluto dei Fairport Convention, il  disco decisivo del folk rock inglese, l’incontro di grandi talenti come Richard Thompson, Sandy Denny, Ashley Hutchings e Dave Swarbrick era sempre stato considerato con parecchio timore reverenziale per la sua poderosa fusione fra passato (la secolare tradizione britannica) e presente (gli strumenti elettrici) e per il suo essere divenuto libro di testo per decine di artisti del circuito roots.
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ImageQuesta settimana “L’angolo del collezionista” si espande. Sarebbe riduttivo segnalare London Calling come un disco di culto, una chicca impolverata da riscoprire, un oggetto misterioso. London Calling è un disco monumentale, bellissimo, suonato da uno dei gruppi più influenti/importanti/veri di ogni tempo: i Clash. Tra i primi a interpretare la rivoluzione punk in modo personale con The Clash nel 1977, i quattro Clash hanno involontariamente brevettato un misto di aggressività, melodia, politica, rabbia e estetica che anche a venticinque anni di distanza continua ad essere metro di paragone e fonte d’ispirazione per innumerevoli gruppi. London Calling, uscito come doppio vinile nel 1979, arriva a metà della loro attività, subito dopo l’esplosione di elettricità che furono i primi due dischi. Dentro ci trovate di tutto: punk, reggae, America meridionale, grigia Inghilterra, trombe e ritmi serrati. Non incontrerete un passaggio noioso, un’idea ripetuta, solo musica magica perché trascinante e consapevole.
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ImageIn copertina un portacenere pieno ospita una sigaretta fumante, vicino una copia chiusa della Bibbia, dietro una bottiglia di whiskey e un bicchiere che qualcuno non ha finito di bere. Così si presenta Whiskey For The Holy Ghost, secondo disco solista di Mark Lanegan, cantante degli Screaming Trees (formazione rock di Seattle) e menestrello delle parti scure dell’anima.  

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ImageE’ opinione comune che la canzone d’autore “colta” nasca e si evolva in chiave folk. In realtà vi è stato anche chi ha provato a unire testi ben  articolati a suoni che poco hanno a che fare sia con la ballata acustica sia con il 4/4 rock. Parliamo di Dory Previn, Laura Nyro e soprattutto David Ackles.

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ImageHatfield and the North sono l’ennesima rivelazione sfornata dalla Virgin nei primi anni settanta: un quartetto di musicisti provenienti dai più disparati tipi di esperienze, ma tutti ruotanti attorno al leggendario plotoncino di musicisti di Canterbury, i cui capifila sarebbero divenuti più tardi i Soft Machine di Ratledge e Wyatt. E proprio del grande Robert e dei suoi Matching Mole, Hatfield and the North paiano essere la proiezione, unendo alla analoga formazione musicale “sotterranea”, una tessitura formale ad essi strettamente apparentata, la capacità di lasciarsi prendere per mano dalla libertà più assoluta, senza mai impattare crudamente contro il muro dell’anarchia.
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ImageJazz Blue Fusion è forse il miglior album in assoluto di John Mayall, anche se fare delle scale di merito nella ultradecennale carriera di questo storico polistrumentista è molto difficile. Mayall si avvale in questo disco dal vivo, registrato in parte a Boston e in parte in uno degli ormai noti collegi di New York, dell’accompagnamento alla chitarra di uno dei più grandi maestri di colore, Freddy Robinson, dell’eccezionale Blue Mitchell alla tromba, Ron Selico alle percussioni, Clifford Solomon al sax e naturalmente Larry Taylor al basso. Questo è il primo tema che avvicinerà Mayall sempre più al jazz, anche se non sempre con risultati soddisfacenti (Ten Years Are Gone lo ha dimostrato ampiamente). La musica è avvincente, spesso esuberante, e non poche volte è sorretta da un incessante ritmo: lo sviscerato blues, che sorge dalle chitarre di Mayall e di Robinson, si fonde magnificamente con la sezione dei fiati, dando un insieme pulito che scorre limpido e preciso. Il vecchio jazz di New Orleans sembra rivivere in un’altra epoca in questo album che comprende in tutto sette brani.

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