Jazz

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ImageIl vibrafonista (e pianista) Bardaro s’è già fatto notare in bei contesti jazzistici: il Quartetto Moderno fondato assieme a Mirko Signorile (qui ospite, anche al piano Fender, suonato con gusto e misura) e la Urban Society del contraltista Gaetano Partiplo, che ricambia il favore con ottimi interventi in questa prima uscita a suo nome. Non sceglie la via del facile “swing”, il giovane vibrafonista attivo anche in prestigiosi contesti classici, tant’è che qui si indaga anche sul repertorio di Carla Bley e Ornette Coleman, percorsi ad ostacoli col trombone affermato di Gianluca Petrella ad aggiungere ruvide spezie. Il che non significa che il tocco di Bardaro non abbia comunicativa e intelligenza, qualità essenziali quando si è titolari, e tanto più se lo strumento non è dei più frequentati. (Guido Festinese)

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ImageThelonious Monk, forse lo abbiamo già detto, una volta definì il rock il jazz dei poveri. Qualcuno (come in effetti è avvenuto) avrebbe potuto dire la stessa cosa del suo stile pianistico e della sua stralunata e angolare concezione della musica. Pensiamo alle sue acciaccature, alle sue pause, ai suoi silenzi e ai suoi sghembi meravigliosi intervalli. L’affermazione di Monk, solo apparentemente denigratoria, conteneva in realtà il fondamentale riconoscimento di una sostanziale continuità estetico-linguistica tra jazz e rock. Un dato di fatto che ancora oggi si tenta di evadere e trascurare per evitare impropri paragoni, a detta di certi specialisti, tra una musica colta (il jazz) e una industriale o popolare (il rock). Il jazz è sì musica colta, ma con le radici ben piantate nella cultura popolare, mentre il rock è la quint’essenza del popular, ovverosia quella cipolla a più strati capace di mettere in relazione cultura bassa e cultura alta in un eterna dialettica. Ecco perché Esbjörn Svensson è stato un musicista prezioso e determinante. La sua spiccata sensibilità jazzistica, infatti, unita alla passione per il rock e le sue declinazioni, lo poneva come ideale anello di congiunzione tra i due mondi. Anzi come il simbolo di un possibile rinnovamento del jazz attraverso gli stilemi del rock. Perché il rock, in oltre quarant’anni di vita, ha nel frattempo sedimentato un tradizione che ormai viene rielaborata e ripensata dalle categorie più disparate di musicisti, soprattutto i jazzisti.

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ImageTorna a fare capolino il signore della tastiera afro-americana, lo sciamano di Città del Capo, da oltre quarant’anni simbolo dell’incontro tra il jazz e la tradizione sudafricana. Lo fa, come al solito, in punta di piedi e (anzi) con un pizzico di delicatezza in più, tanto da avvicinarsi in qualche momento a poetiche impressioniste. L’album, registrato nell’aprile scorso al WDR studio di Colonia, è un sublime concentrato dell’opera di Ibrahim sempre in bilico tra l’orazione ieratica e i colori del canto e della danza. Con un paio di pezzi dedicati a John Coltrane, tra i più consapevoli sostenitori di un ritorno alle mitiche origini africane, e la riproposizione dell’ellingtoniana “In A Sentimental Mood”, non manca un grato ed elegante omaggio alla storia del jazz, sempre interamente compresa nella musica di Ibrahim. E proprio Duke Ellington, padre spirituale e musicale di Abdullah, sembra nascondersi dietro quel “Senzo” che da titolo all’intero lavoro, in giapponese “antenato” e in sudafricano “padre”. Il grande pianista e band-leader di Washington, infatti, fu il primo ad accogliere nel mondo del jazz un giovane ed esule Ibrahim in fuga dal regime dell’apartheid.

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ImageNonostante si sia avvalso di musicisti indiani in alcune registrazioni (soprattutto tra fine ’69 e inizio ’70), i rapporti tra Davis e l’India non furono poi così stretti. Questo non ha impedito a Bob Belden di allestire un progetto, tra Mumbai e New York, in cui antichi sodali del trombettista (da Jimmy Cobb a Ron Carter, da Chick Corea a Dave Liebman) incrociano i loro strumenti con sitar, tablas e vocalità orientali. Un nuovo East-meets-West con “All Blues”, “So What” e “Blue In Green” (tra i più riusciti) da “Kind of blue” e molti brani dal periodo “Bitches Brew”, più quello che dà il titolo, scritta ed eseguita per l’occasione dal più indianeggiante dei suoi accoliti, John Mc Laughlin. A tratti la ‘fusione’ è un po’ fredda, ma a volte semplicemente irresisitibile. Due cd al prezzo di uno. (Danilo Di Termini)

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ImageNel 2006 Dave Douglas decide di musicare alcuni film muti prodotti dalla Keystone pictures negli anni ’10 (tra cui “Moonshine” con Buster Keaton e Fatty Arbuckle). Il progetto si stabilizza in un gruppo, composto da Gene Lake (batteria), Marcus Strickland (sax), Adam Benjamin (piano Fender), Brad Jones (basso) e DJ Olive (giradischi), per cui il trombettista compone otto nuovi titoli ,ispirati chiaramente alle atmosfere del Davis elettrico degli anni ‘70 (e molto anche all’Hancock dello stesso periodo). Nulla a che vedere però con quel magma sonoro, spesso caotico: qui i brani sono strutturati in maniera classica, nel consueto stile di Douglas, attento più alla composizione che all’improvvisazione, se non addirittura all’arrangiamento come nel poliedrico “Flood plane”. Consigliatissimo. (Danilo Di Termini)

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ImagePubblicato dall’etichetta tedesca ACT nello scorso anno, ma distribuito solo adesso in Italia per non affollare la discografia del trombettista berchiddese, “Mare nostrum” si snoda attraverso quindici composizioni, in maggioranza dovute alla vena compositrice dei tre co-firmatari del disco, l’accordeonista e bandoneonista provenzale Richard Galliano, il pianista svedese Jan Lundgren e Paolo Fresu. Uniche eccezioni, "Eu Nao Existo Sem Voce", un omaggio al Brasile di Vinicius De Moraes, l’immortale “Que reste-t-il de nos amours” di Trenet con una raffinata introduzione di Galliano, “Ma mère l’oye” di Ravel e un tradizionale svedese. Le atmosfere sono introspettive e sommesse, ma sempre limpide ed essenziali: un progetto riuscito e affascinante. (Danilo Di Termini)

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