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Jazz Recensioni E.S.T. - Leucocyte (Act Music 2008)
 

E.S.T. - Leucocyte (Act Music 2008) Hot

ImageThelonious Monk, forse lo abbiamo già detto, una volta definì il rock il jazz dei poveri. Qualcuno (come in effetti è avvenuto) avrebbe potuto dire la stessa cosa del suo stile pianistico e della sua stralunata e angolare concezione della musica. Pensiamo alle sue acciaccature, alle sue pause, ai suoi silenzi e ai suoi sghembi meravigliosi intervalli. L’affermazione di Monk, solo apparentemente denigratoria, conteneva in realtà il fondamentale riconoscimento di una sostanziale continuità estetico-linguistica tra jazz e rock. Un dato di fatto che ancora oggi si tenta di evadere e trascurare per evitare impropri paragoni, a detta di certi specialisti, tra una musica colta (il jazz) e una industriale o popolare (il rock). Il jazz è sì musica colta, ma con le radici ben piantate nella cultura popolare, mentre il rock è la quint’essenza del popular, ovverosia quella cipolla a più strati capace di mettere in relazione cultura bassa e cultura alta in un eterna dialettica. Ecco perché Esbjörn Svensson è stato un musicista prezioso e determinante. La sua spiccata sensibilità jazzistica, infatti, unita alla passione per il rock e le sue declinazioni, lo poneva come ideale anello di congiunzione tra i due mondi. Anzi come il simbolo di un possibile rinnovamento del jazz attraverso gli stilemi del rock. Perché il rock, in oltre quarant’anni di vita, ha nel frattempo sedimentato un tradizione che ormai viene rielaborata e ripensata dalle categorie più disparate di musicisti, soprattutto i jazzisti.

 

 

 

 

 

 

 

Oggi, a un paio di mesi di distanza dalla disgraziata scomparsa di Svensson per un banale incidente subacqueo, esce postumo l’ultimo splendido lavoro discografico dell’Esbjörn Svensson Trio. Una presa diretta, una vera e propria improvvisazione che è una sintesi della poetica del gruppo. Domina una specie di post-rock asciutto, elegante, saturo di aggressività, ma senza esplosioni, in cui l’abbondanza di ammiccanti effetti elettronici, filtri agli strumenti acustici, si impasta alla perfezione con il fraseggio jazzistico del piano di Svensson e con la ripetizione ossessiva di certi ritmi binari. Qualcuno potrebbe riferire di un incontro tra Keith Jarrett e i Radiohead, ma a noi sembra riduttivo, data la statura artistica e la personalità di ciascun componente della formazione. Grande l’intesa fra i tre, il reciproco ascolto, la tensione creativa che pervade tutta la registrazione senza pause o cedimenti. Leucocyte sembra un lascito testamentario a futura memoria di questo grande pianista morto anzi tempo. E in effetti l’album termina con una suite in quattro parti che ha tutta l’aria (ironia della sorte) di un requiem ante litteram, e non solo per i titoli delle tracce finali (“Ad Mortem” e “Ad Infinitum”), ma per l’intero incedere, che evoca una processione a lutto, e la netta predominanza di suoni artificiali. A un certo punto è, addirittura, il silenzio ad assurgere al ruolo di protagonista con quel minuto senza musica (di cageana memoria) che ci introduce in “Ad Mortem”, facendo in modo che il peasaggio sonoro del momento diventi “Ad Interim” parte integrante dell’opera. Emozionante. (Marco Maiocco)

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