Jazz
Straordinario strumentista e, caso raro, entusiasta divulgatore musicale (che chissà perché a volte in Italia sembra essere un difetto), Stefano Bollani giunge al secondo album per la sua etichetta Alobar. Dopo essere ritornato con Que Bom a uno deisuoivecchi amori, il Brasile, ora si spinge ancora più indietro, a uno delle suepassioni adolescenziali. In realtà quando il pianista nasce a Milano nel 1972 il disco da cui tutto comincia (quello con Ian Gillan nel ruolo divino) è già uscito da due anni; per il film bisognerà aspettarne ancora uno, ma come dichiarato nelle interviste di presentazione è proprio con il Jesus Christ di Norman Jewison che arriva l’incontro con il corpus musicale di Andrew LIoyd Webber (e i testi di Tim Rice). Si tratta di una vera e propria folgorazione, tanto che a distanza di decenni Bollani decide di rileggerlo, addirittura in piano solo. Forse è superfluo ricordare quanto il repertorio della commedia musicale abbia influenzato il jazz; ma giova sottolineare che in quest’ambito ci troviamo. Ovviamente l’interpretazione di Bollani non può fare a meno dell’apparente spontaneità che caratterizza il suo stile, dove per apparente va intesa la disarmante semplicità con cui approccia lo strumento e, in questo caso, le canzoni da rileggere. Disponendosi con attenzione all’ascolto non si può far a meno di notare che quel Piano Variations messo davanti al titolo è quanto mai significativo: ogni brano è affrontato con il massimo rispetto e nello stesso tempo con un’inventiva davvero fuori dall'ordinario. Le variazioni a volte sono minime (I Don't Know How to Love Him), altre più marcate (King Herod's Song che suona come un tributo a Fats Waller o Everything's Alright dove il pensiero corre a Bill Evans). Hosanna profuma di Brasile mentre Strange Thing, Mystifying potrebbe essere l’accorato bis di un ispirato solo concert di Keith Jarrett. In un unico brano Bollani si lascia andare al canto, altra sua grande passione: Superstar, dal testo quasi recitato in un sussurro fino al coro liberatorio (con la figlia Frida, la sorella Manuela e la compagna Valentina Cenni), è il sottofinale del disco che si conclude, come l’originale, con John Nineteen Forty-One per la deposizione finale nel sepolcro. Ma il consiglio è di non aspettare tre giorni per riascoltarlo! (Danilo Di Termini)
Ogni tanto un disco appena uscito pone un problema, un nodo cruciale che è bene affrontare. Si potrebbe riassumere così: in un'epoca che sembra ormai privilegiare una velocità di consumo della musica direttamente proporzionale alla ridottissima capacità di mantenere la soglia dell’attenzione, che fine fanno quelle incisioni splendide ma che hanno il torto di non appartenere né a un presente che pur riserva qualche spicciolo d'interesse alle nuove uscite, né a un passato che ogni tanto, magari di straforo, viene rivisitato? La risposta sarebbe facile. Il passato prossimo della musica sta svanendo, e a dispetto di tutte le memorie digitali e gli Spotify del mondo. Bello allora che a Fresu sia venuto in mente di creare una piccola diramazione della sua etichetta di qualità, la Tŭk Music, che accolga dischi usciti qualche anno fa, e che forse è il caso di non dimenticare. Wanderlust, ad esempio, è un disco uscito originariamente nel 1997 per la BMG France: Fresu lo aveva inciso col suo quartetto su due piste, dal vivo in studio a Liegi, il giorno dopo aver tenuto uno splendido concerto nella bella città sede di un festival jazz d'eccellenza. Per l'occasione si unì al già rodatissimo quintetto anche il tenorsassofonista Erwin Vann, che portò in dote il brano Children of 10000 Years, in sostanza affiancando il titolare del sax nel gruppo, il magnifico TinoTracanna. Fu una seduta rilassata e rilassante, con quella concentrazione gioiosa che fa sembrare facili anche le cose che facili non sono, come la compattezza di filante eleganza di questi brani. Adesso tornano, con il suono rimasterizzato dalle mani e orecchie attente di Stefano Amerio dell’Arte Suono studio. Un solido scrigno di bellezza che ritorna. (Guido Festinese)
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