Da sempre mi affascinano le coincidenze, penso che siano un bel modo di aiutarci a comprendere meglio la vita. O magari solo a sopportarla. Stavo ascoltando il nuovo disco del batterista Jim Black, uno che seguo da quando tanti anni fa lo vidi in quella che allora si chiamava la Sala Garibaldi insieme a Tim Berne (stupefacente!). Intanto leggevo un articolo di Ernesto Franco dedicato a Daniele Del Giudice apparso sabato 11 gennaio su Robinson. Dopo alcune righe Franco sceglie alcune parole-mondo per raccontare l’uomo e lo scrittore: una di queste è “Sentire”, definita come “l’improvvisazione nel jazz: non puoi farlo se non conosci tutta la musica, ma non puoi farlo se non ti avventuri al limite della musica conosciuta, e da lì ami e conosci in un unico suono, in un solo gesto”.
Splendida e illuminante definizione che ripensando a tutta l’opera di Black - alle collaborazioni con Dave Douglas, Uri Caine, Jamie Saft, a gruppi come AlasNoAxis (con Chris Speed, Hilmar Jensson e Skúli Sverrisson), Human Feel (ancora con Chris Speed, Andrew D'Angelo e Kurt Rosenwinkel), al disco “The Veil” con Berne e il chitarrista dei Wilco Nels Cline – mi sembrava riassumerla perfettamente. E a sua volta “Reckon” – quarto disco di questo trio – sintetizza magistralmente il suo percorso musicale: se “Astrono Said So” è quasi una impetuosa dichiarazione d’intenti, con un’apertura basso/batteria incalzante che poi lascia spazio al pianoforte di Elias Stemeseder, “Tripped Overhue” ribadisce l’estetica del gruppo con una pacificata dichiarazione d’intenti: la batteria di Black riassume l’eredità del jazz nel segno della pulsazione rock (o se volete post-rock), il basso netto e propulsivo di Morgan si insinua negli spazi invitanti lasciati da Stemeseder. Il risultato è una musica che supera (dopo essersene nutrito) il free, ma che soprattutto cresce nel (e del) desiderio di esplorare nuovi territori. Quegli spazi che da sempre sono il motore del jazz più autentico, da Monk a Mengelberg, per fare due nomi di cui si incontrano evidenti tracce nel disco, fino all’Esbjörn Svensson Trio di cui sembrano il felice superamento. E che in questo disco si possono riconoscere “in un unico suono, in un solo gesto”, quello della pulsante batteria di Black. (Danilo Di Termini)