Rock
Uno legge il titolo “musica dei nostri tempi”e pensa che sia operazione di understatement, di qualcuno che si diverte a provocare con note inattuali il panorama “di tendenza” del momento, oppure anche il contrario, un musicista che cerchi di fotografare in tempo reale quanto accade attorno. Né l’una né l’altra delle ipotesi qui, però. Il titolo significa esattamente quanto dichiara: che questo disco è nato in “questi” tempi. Piuttosto speciali, e in negativo. Quelli del Virus. Le cose sono andate più o meno così: Gary Husband, uno di quei musicisti che per fortuna non si riescono a arruolare in nessun genere preciso, come Kip Hanrahan, ma che sanno cogliere il meglio del jazz, del rock di ricerca, delle note dal mondo, era in viaggio assieme a Leonardo Pavkovic della Moonjune e Markus Reuter. Quest’ultimo, uno dei pochi veri specialisti del micidiale “stick” (incrocio tra chitarra e basso da suonarsi con la tecnica del tapping) , nella sua versione touch guitar, doveva affrontare parecchie date in Cina e Giappone con i suoi Stick Men. Husband era l’ospite – jolly di alcune date. Nel Paese del Sol Levante arriva la ferale notizia del virus, rientro forzato a casa. Però Pavkovic riesce a fissare un paio d’ore in studio di registrazione a distanza ragionevole dall’aeroporto. Lì c’è un pianoforte di vaglia per Husband, e Reuter si porta dietro le sue corde e il computer per processare in tempo reale i suoni in improvvisazione. Risultato: un piccolo capolavoro di art rock- jazz sperimentale – ambient music che potrebbe piacere indifferentemente a chi ama Bill Laswell, Brian Eno, Steve Hillage, Robert Fripp. E un brano con dedica per Allan Holdsworth da lucciconi. Ex malo bonum. Almeno in musica. (Guido Festinese)
Se c’è un termine che associo immediatamente a Fludd è interferenza. Da trent’anni (e anche da prima, quando ancora si chiamavano RAT) ho sempre pensato che l’intento, nemmeno troppo nascosto, di questo collettivo multimediale sia di interferire: le loro (install)azioni video, teatrali e musicali nascono per “gettare fra gli altri il proprio disagio con qualsiasi mezzo: un’arte inutile alla storia ma vitale per sé stessi”. Da questa ineccepibile definizione non può che avere origine un’interferenza, artisticamente intesa come un incontro/scontro di azioni, iniziative, idee diverse, per lo più discordanti, ma che tendono a influire l’una sull’altra. A essere riversato sul pubblico è il risultato finale, mai conciliante, tantomeno consolatorio, di questo contrasto: sullo spettatore, nel caso delle loro performance in cui agiscono come collettivo con Gianriccardo Scheri (autore di testi e di originali scelte visuali) e Angela Mambelli (curatrice e costruttrice di straordinari ambienti in miniatura); sull’ascoltatore se ci riferiamo solo alla musica. In The Soundshots Recap Marco Cacciamani fa quasi tutto da solo: anche la sua musica, elettronica nel senso più originario del termine, è fatta di interferenze, disturbi, alterazioni. Se non mancano episodi di rumorismo o post-industriale (Dazzle medley), a guidare c’è sempre una linea melodica, anche nei pezzi più ambient (Waving out). L’interferenza torna sempre, minimale e inaspettata come in Room service ¼ dove prende la forma di un organo o come nel brano che dà titolo al disco dove assume la classica veste della scarica hertziana. Ma qui c’è anche il basso di Riccardo Canessa a dettare il respiro del brano così come in Blizzard (unici featuring del disco). Il cupo, nomen omen, Not an Exit, è l’accesso ai due brani più classici, Negligence, che segna un involontario omaggio alla scomparsa di Florian Schneider; e il già citato Blizzard, sospesa evocazione tra i migliori Simple Minds e i Cure. Può sembrar inconsueto invitare all’ascolto di un disco fatto di ‘interferenze’: ma forse che l’arte non nasce per interferire con la vita? (Danilo Di Termini)
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