Jazz

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FRANCO D'ANDREA PIANO TRIO - Trio Music Vol. II

Forse il vero patto col diavolo di cui narravano leggendari bluesmen l'ha fatto ad un crocicchio milanese il grande Franco D'Andrea. Il Nostro ha ormai i capelli bianchi, la gloriosa e ruggente stagione jazz rock del Perigeo è lontana come le guerre puniche per le orecchie più giovani, eppure il pianista  si permette azzardi con la musica che dovrebbero praticare i ventenni. Il penultimo sforzo fu, si ricorderà, un trio (Electric Tree) in cui l'elettronica di DJ Rocca e il sax di Andrea Ayassot interagivano con il piano di D'Andrea. Doppio cd, ispiratissimo. Adesso, a rincarare la dose, con sublime understatement il coetaneo all'anagrafe di Bob Dylan si permette un altro doppio cd per il suo Piano Trio acustico, forse la formula ritenuta più “abusata” della storia dle jazz, con i talenti stellari di Aldo Mella e Zeno Rossi, basso e batteria. Abituati come siamo a incensare (per carità, anche meritatamente) i Mehldau e i Jarrett, concedetevi il lusso di (ri)scoprire che D'Andrea è secondo a nessuno, una delle migliori tastiere del Pianeta. Con il santino cubista di Monk ad ammiccare, echi di ragtime e stride, riff e shuffle ben distribuiti, esplosioni di cluster che rammentano il glorioso Don Pullen che fu, e molto altro ancora. Scopritelo. (Guido Festinese)

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ACOUSPACE PLUS - Tid

Prendetevi del tempo (“Tid” in danese) e possibilmente anche dello spazio (anche quello immaginario, garantito dall’isolamento di un buon paio di cuffie, può andar bene) e disponetevi all’ascolto. Il quartetto formato da Jesper Bodilsen al contrabbasso (è lui il cuore pulsante del trio ‘nordico’ di Stefano Bollani), Claus Waidtløw e Joakim Milder ai sax e Spejderrobot all’elettronica, richiede attenzione, ma non perché la sua musica suoni ostica o pretenziosa, semplicemente perché, fin dalle prime note, “Snowland” avvolge in un universo acustico sinuoso, curvilineo, in questo favorito dall’assenza di strumenti percussivi e anche del pianoforte.

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SPIKE WILNER - Koan

Il pianista perfetto, esattamente in equilibrio come un funambolo gentile e scaltrito su un filo che è il più sottile di sempre, e finge di non accorgersene? Forse è così. Spike Wilner, cresciuto in una famiglia rabbinica di New York di specialisti della Cabala, una nonna che è stata pittrice impressionista astratta, e svariate altre curiosità parentali, oggi potrebbe aspirare legittimamente al titolo di Giovane pianista perfetto. E' cresciuto da ragazzino suonando brani di ragtime di impressionante difficoltà, poi s'è innamorato dello stride piano, infine s'è trovato a studiare con gente diversa come Kenny Barron, Barry Harris e Brad Mehldau, ed ha preso il volo: con una diteggiatura sempre sul tempo, implacabile, evidenti echi di blues nel modo di cercare sempre le note blu, una caratura ritmica impressionate nelle mani, un gusto a trecentosessanta gradi che lo porta a spaziare da Ellington a Ornette Coleman. Sempre con una pressante carica di swing, e comunicando quella voglia di battere il piede a tempo che per molti pianisti contemporanei è mera utopia. (Guido Festinese)

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JD ALLEN - Americana /Musings on Jazz and Blues

Allen, tenorsassofonista di Detroit, è una delle figure musicalmente più interessanti della nuova scena nera americana. Ha una quarantina d'anni, un corpus di pubblicazioni notevole, ed un suono maturato sullo studio e l'ascolto di tutti i grandi, nessuno escluso: fino ad arrivare a un David Murray, diremmo. Graffiti, il suo precedente lavoro con la stessa coppia di musicisti stellari che lo accompagnano (Gregg August al basso, Rudy Boston alla batteria) viveva di richiami evidenti alla lezione del “saxophone colossus”, Sonny Rollins, almeno nell'impostazione del suono, mentre il fraseggio, ellittico e spesso criptico sembrava scaturire da una bella meditazione su Wayne Shorter. Qui il cambio di passo è totale: sull'altare c'è ora il John Coltrrane semplicemente perfetto della metà degli anni Sessanta, quello di Crescent ed altri dischi capolavoro, urgente e fiammeggiante a tratti, dolente sino alle lacrime in certe ballad che lo richiedevano (Alabama). Un suono alla Coltrane è qui la chiave per andare a indagare su quanto le forme del blues abbiano ancora a che fare con il futuro del jazz, oltre che con fette abbondanti del passato. Due sole le cover: Another Man Done Gone, che fu raccolto dal registratore di John Lomax, e If You're Lonesome, You're not Alone. Ma tutto quello che scrive Allen qui sa di antico e di modernissimo, una contraddizione solo apparente. Un disco che cresce ad ogni ascolto, a tratti anche entusiasmante. (Guido Festinese)

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LIVIO MINAFRA - Sole Luna

Meno male che, a dar una bella scrollata ai luoghi comuni, esistono anche i figli d'arte di valore. Portare un cognome importante può essere utile come apriporta, esiziale se ti aspettano al crocicchio col fucile puntato, e verranno messi in luce, inesorabilmente, quali e quanti limiti ha nei confronti del gentile e inarrivabile genitore. Meno male, si diceva, che non sempre è così,. Vedi alla voce Jeff Buckley, nel rock, o a quella Ravi Coltrane, nel jazz nero. E in Italia? A fronte di montagne di sconfortanti esempi che confermano il luogo comune, nel jazz creativo e senza etichette più libero che c'è troviamo perlomeno Livio Minafra. Multistrumentista, ma soprattutto pianista, cresciuto tra una scalpitante e tonitruante Banda del sud e gli ensemble che suo padre Pino, magnifico folletto dell'imprevedibilità tiene assieme con lo stesso piglio con cui il Maestro Scannagatti meglio noto come Totò dirigeva in piazza. Questo è il nuovo disco in “solo” di Livio, un cd dedicato al sole, tutto giochi beffardi, ricordi di Robert Wyatt quando pasticcia ridacchiando tra tastiere e suoni alieni inventati lì per lì, e uno che si chiama  Luna, percorso umbratile e davvero  notturno, fra ricordi impressionisti e dolcezze evans-jarrettiane. In ogni caso, un lavoro che resterà. Alla faccia del cognome.  (Guido Festinese)

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BAD PLUS - It's Hard

Dopo quattro album composti esclusivamente di brani originali (ad eccezione di “Stravinsky’s Rite of Spring”) il pianista Ethan Iverson, il bassista Reid Anderson e il batterista Dave King tornano alla formula che li ha resi famosi, le cover di brani pop-rock. Inutile cercare un filo conduttore nella scelta dei brani (se non la sicumera che tutto possa serenamente diventare jazz): oltre a un pezzo di Ornette Coleman si susseguono titoli altenative rock, successoni anni ’80, i Kraftwerk e Peter Gabriel. Ma così come cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia, anche qui il risultato è sempre identico e la parola che ben lo riassume è: sconfortante. “Time After Time” (di cui, lo ammetto, faccio fatica anche a sopportare la versione di Miles Davis) si dilata stancamente, così come “Don’t dream It’s Over” dei Crowded House (sì, l’ha rifatta anche Venditti…): per nobilitare la questione Iverson finge di mettere qualche nota dissonante qua e là, King si piazza dalle parti di Paul Motian e tutto prosegue fino al rassicurante ritornello. Ma c’è di peggio ed è sicuramente la versione di “Mandy” di Barry Manilow seguita da “The Robot” dei Kraftwerk in versione piano Casio per minori di dodici anni. A volte quando mi capita di ascoltare del jazz con qualche amico non interessato al genere, mi sento dire: “Non capisco cosa fanno”. In questo caso mi sento di dire che non si capisce invece perché lo fanno. (Danilo Di Termini)

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