Jazz

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DR. LONNIE SMITH - Evolution

Avvertenza numero uno: nella storia del jazz ci sono due Lonnie Smith. Uno ha aggiunto Liston nel nome, ha suonato piano e tastiere anche con Davis e Pharoah Sanders, poi ha fondato i Cosmic Echoes e oggi prosegue una carriera tra funk e jazz. L’altro ci tiene ad essere chiamato Doctor, suona l’Hammond B3, ha iniziato con George Benson e dopo l’incontro con Lou Donaldson ha inciso ottimi album di soul-jazz per la Blue Note, alla quale ritorna 45 anni dopo “Drives” (con una funambolica versione di "Spinning Wheel"). Avvertenza numero due: il titolo non tragga in inganno. Nonostante la presenza di Robert Glasper al piano in "Play It Back" (dal “Live At Club Mozambique” del 1970) o di Joe Lovano in “Afrodesia” (dall’album omonimo del ‘75 dove il sassofonista aveva praticamente esordito), nel disco non si riscontra nessuna ‘Evoluzione’ musicale. Il settantaquattrenne Smith non lesina certo energia in “Talk About This” o “Straight No Chaser”, né delicatezza in “For Heaven’s Sake” o “My Favorite Things”, e la ritmica (Joe Dyson alla batteria e Jonathan Kreisberg alla chitarra) ben lo asseconda. Ma il risultato è un onesto soul jazz che però mantiene inalterato il suo sfocato fascino. (Danilo Di Termini)

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BILL FRISELL - When You Wish Upon a Star

Se dovessimo scegliere un solo pregio tra i tanti del chitarrista di Baltimora non avremmo dubbi nell’individuare nello stile unico, originale e riconoscibile, la peculiarità più essenziale. Spesso i pregi coincidono con i difetti e a volte i suoi dischi, complice anche una certa prolificità, risultano a tratti risaputi se non stucchevoli. In questo album, dedicato ad alcune celeberrime colonne sonore, grazie anche ad un interessante gruppo allestito per l’occasione (Eyvind Kang alla viola, Thomas Morgan al basso, Rudy Royston alla batteria e la voce di Petra Haden, la figlia di Charlie, già con il chitarrista in un disco in duo di qualche anno fa), il rischio del ‘birignao’ viene quasi sempre scongiurato: in particolare alcune reinterpretazioni sono molto riuscite, “Psycho” e ”The Shadow of Your Smile” per esempio; ma ripensando alla potenza del disco del 1985 “The Big Gundown”, in cui John Zorn rileggeva l’opera di di Ennio Morricone riunendo la crème dell’avanguardia di quegli anni (tra cui Frisell), si rimpiange la capacità che avuto il jazz di reinterpretare la realtà per trasformarla in maniera vitale e non consolatoria. Resta comunque un ottimo disco, uno dei migliori di sempre di Frisell. (Danilo Di Termini)

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CHARLES LLOYD - I Long To See You

In ambito jazz il musicista che più di altri ha contribuito all’unione civile con il country è sicuramente Bill Frisell. Il chitarrista ha esplorato spesso il country e il bluegrass e non stupisce trovarlo al fianco del quasi ottantenne Charles Lloyd (nel cui quintetto si mise in luce un giovanissimo Keith Jarrett e che ha anche frequentato i territori del pop), per un disco che ha l’ambizione di tenere insieme folk e spiritual, Dylan e Billy Preston, oltre al repertorio dello stesso sassofonista. Un gruppo di all star (il contrabbassista Reuben Rogers, il batterista Eric Harland, il chitarrista steel Greg Leisz) accompagna due ospiti come Willie Nelson nel classico anti-militarista “Last Night I Had the Strangest Dream” e Norah Jones in una svenevole versione di “You Are So Beautiful”, episodi che non convincono così come sconcerta la rilettura di “Masters of War”; decisamente più riusciti gli episodi jazz come “Of Course, Of Course” con Lloyd al flauto (da un disco del ’64), l’ispaneggiante “La Llorona” (da “MIrror” del 2010) e lo splendido finale di “Barche Lamsel” per un disco che prova forse a mettere insieme troppe cose senza riuscirci fino in fondo. (Danilo Di Termini)

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BEN MONDER - Amorphae

La non compattissima schiera dei chitarristi che osano l'inosabile, intendendo con l'aggettivo non certo i mitragliatori di note, ma coloro che usano la sei corde per costruire vertiginosi paesaggi sonori spesso inauditi comprendeva ad oggi gente come Frisell, certo Abercrombie, David Torn, Tibbetts, Aarset. Tutti più o meno confluiti a casa Ecm, che di paesaggi sonori udibili e inauditi se ne intende, e ne ha anzi fatto un marchio di fabbrica. Adesso converrà aggiungerci anche il grande Ben Monder, che con Amorphae sigla il suo primo titolo Ecm. Alla batteria trovate una delle estreme prove del compianto Paul Motian, tutto fruscii e misteriose risonanze metalliche: il più onirico batterista della storia, e a volte anche l'altrettanto grande sostituto Andrew Cyrille. Ai sintetizzatori Pete Rende, che fonde mirabilmente le sue timbriche estreme e maestose con quelle del chitarrista, tant'è che a volte è difficile distinguere la sei corde dall'elettronica pura. Chi ama il Frisell più inquieto e metafisico, il Torn degli sbalorditivi abissi sonori, ed anche certe riuscite pagine “ambient” di Robert Fripp sappia che qui troverà uno dei dischi di riferimento del genere per i prossimi anni. (Guido Festinese)

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RUDD/SAFT/DUNN/PANDI - Strenght & Power

Strenght & Power: forza ed energia. Esattamente il contrario di quanto vi aspettereste da un ottantenne. Va bene che la geriatria fa miracoli, va bene che si vive in un mondo dove chi ha già vissuto sedici lustri si considera più o meno un pivello, ma certi titoli andrebbero maneggiati con cautela. Se però vi chiamate Roswell Rudd, professione trombonista jazz al vetriolo, una carriera che mette in conto il Dixieland e assieme la militanza dura e pura accanto a gente affilata come Archie Shepp va a finire che vi dovrete ricredere. E mettervi ad ascoltare un disco come questo, un uragano di suono concepito in tote improvvisazione da Rudd nel suo studio vicino a Woodstock con gente che ha mezzo secolo meno di lui, e lo segue pure con un certo attonito arrancare. Suono palpitante, teso, luminoso e terroso al contempo, campiture ampie, un trionfo dell'intelligenza musicale creativa che non mostra segni di usura. (Guido Festinese)

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ARUAN ORTIZ TRIO - Hidden Voices

Da diversi anni il pianista cubano Ortiz è andato ad  aggiungere il proprio tocco possente ritmicamente e melodicamente scarno alla folta schiera di energie caraibiche con base negli States. Rispetto a Omar Sosa, che più o meno prende le mosse dagli stessi presupposti (conoscenza enciclopedica del jazz e delle note classiche, amore per le proprie radici afrocubane), Ortiz predilige una diteggiatura più vicina alle avanguardie afroamericane: ben evidente qui nelle due uniche cover presentate, rispettivamente da Ornette Coleman e Thelonious Monk (la poco frequentata Skippy). E' un disco di enorme fascino, questo delle “voci nascoste” del titolo, ricercate e recuperate: con il supporto pressoché perfetto di due giganti come Eric Revis al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria, ed il gioiellino finale Uno, dos y tres, que paso más chévere, direttamente attinto dal patrimonio folklorico cubano. (Guido Festinese)

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