Jazz

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ImageIn un’intervista rilasciata a Down Beat qualche anno fa, a Dizzy Gillespie fu chiesto quale fosse il trombettista che più gli piaceva ascoltare. Rispose facendo il nome di Charles Tolliver. Con questa premessa i più avvertiti sapranno già come suonerà questa big band che il sessantacinquenne strumentista di Jacksonville ha rodato la scorsa estate (raccogliendo consensi anche dall’austero New York Times) e che ha poi portato in sala d’incisione per un disco tutto energia e swing. Tolliver, che potrete ascoltare in tre belle incisioni degli anni ’60 di Jackie McLean ad esempio (“It’s time”, “Action”, “Jacknife”, tutti Blue Note) o più recentemente in “Time lines” di Andrew Hill, è certamente influenzato da Clifford Brown e Freddie Hubbard, ma capace comunque di distinguersi per fluidità, brillantezza e inventiva oltre che per doti compositive: dei sette brani presentati solo “Round midnight” (una versione apparentemente compassata che si trasforma in un entusiasmante sfilata di assoli) non proviene dalla sua penna. Tutti temi che permettono alla band di esprimere al meglio il suo potenziale in fatto di dinamica e velocità (come nella mingusiana “Right now”) e ai solisti di dimostrare tutto il loro valore; manca una ballad che permetta di tirare un po’ il fiato, ma se volete un disco di hard-bop per orchestra questo è senza il dubbio il titolo per voi. (Danilo Di Termini)
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ImagePianista, compositore, produttore, il belga Marc Moulin ha formato il suo primo trio jazz nel lontano nel 1961, iniziando subito dopo una lunga collaborazione con Philip Catherine e accompagnando tutti i jazzisti americani (Slide Hampton, Dexter Gordon, Benny Bailey, Clark Terry, Johnny Griffin tra gli altri) che passavano da Bruxelles negli anni ’70. Poi la svolta: nel 1978 fonda i Telex (gruppo di pseudo-culto che con la nenia techno-pop “Moskow Discow” si inserisce nel filone Kraftwerk, volgarizzandolo non poco) e due anni dopo arriva “Banana split”, indimenticabile hit per Lio. L’approdo al lounge-jazz a questo punto è inevitabile: nel 1999 il contratto con la Blue Note con cui incide “Top Secret” nel 2001 (più di 100.000 copie vendute) e “Entertainment” nel 2004. Adesso è la volta di “I am you”, piacevole intrattenimento di sottofondo che sul sito di Moulin viene presentato come “a dark and mellow trip”. Può darsi che sia così: a tratti il disco si fa ascoltare con estrema piacevolezza e non si può negare una notevole abilità tecnica dei musicisti coinvolti; ma per decreto sarebbe necessario impedire la riproduzione del suono della tromba di Miles Davis dell’ultimissimo periodo elettrico (quello da “Tutu”in avanti per intenderci) e l’utilizzo di tastierine elettriche e organetti alla lunga piuttosto irritanti. Forse così si riuscirebbe a rivitalizzare un genere che altrimenti continuerà a confondersi con il chiacchericcio da aperitivo dei cocktail-bar dove sembra confinato a restare. (Danilo Di Termini)
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ImageTra le influenze musicali che il produttore Scotty Hard segnala sul suo sito, ci sono John Cage e Duke Ellington, Ornette Coleman e Bela Bartok, Stevie Wonder e i Clash. Difficile raccapezzarsi, anche se, ascoltando questo ultimo disco realizzato in combutta con John Medeski e Matthew Shipp (oltre al bassista William Parker, al batterista Nasheet Waits e a vari ospiti tra cui DJ Olive ai giradischi), bisogna aggiungere almeno Sun Ra per quel che riguarda (ammesso che esista) la space-music e il funky, nello specifico l’ossessiva base ritmica che ne contraddistingue alcune tendenze. A questa miscela bisogna addizionare l’amore per il soul-jazz di Medeski, il pianismo personale e ossessivo di Shipp, tanta elettronica ed ecco il risultato finale di un ‘laboratorio radicale’ spiazzante e affascinante. (Danilo Di Termini)

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ImageAppaiono per la prima volta in cd le tracce pubblicate nel 1966 dall’etichetta che Charles Mingus aveva fondato per vendere i suoi dischi direttamente per corrispondenza; l’esperimento fu un mezzo fallimento tanto che se qualcuno avesse una copia di quell’album che allora si intitolava “Special music written for (and not heard at) Monterey”, oggi si ritroverebbe con qualche migliaio di euro in più. Per gli altri ecco la pubblicazione di un doppio cd, curato personalmente dalla vedova Sue Mingus, nel quale è restituita la registrazione integrale del concerto tenuto il 25 settembre all’università di Los Angeles. L’atmosfera sul palco non è distesa, tanto che il gruppo - un ensemble piuttosto singolare composto da tre trombe (Hobart Dotson, Lonnie Hillyer e Jimmy Owens, quest’ultimo anche al flicorno) Charles McPershon al sax alto, Julius Watkins al corno francese, Howard Johnson alla tuba e Dannie Richmond alla batteria - dopo l’esordio della mistica “Meditation on inner peace”, con introduzione e assolo con l’archetto di Mingus, si riduce ad un quartetto: i ripetuti e falliti tentativi di iniziare “Once upon a time, there was a holding corporation called old America” inducono l’umorale leader a cacciare i malcapitati e passare a “Ode to Bird a Dizzy”, un omaggio al bop con sax e tromba a rincorrersi su frammenti di brani di Parker, Dameron, Gillespie, Pettiford, Roach, Navarro.
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ImageAbbiamo appena salutato il nuovo disco dal vivo del settantaseienne Ornette Coleman ed ecco che un’oscura etichetta di San Francisco rende finalmente disponibile il pressoché mitico “To Whom Who Keeps a Records”, pubblicato in Giappone nel 1975 e mai edito in cd. Sette brani in tutto di cui uno, “Music always”, proveniente dalla sessione dell’8 ottobre 1959 a Hollywood, quando il quartetto formato da Don Cherry alla tromba, Charlie Haden al contrabbasso, Billy Higgins alla batteria e il leader al sax alto registrò “Change of the Century”; i rimanenti dalle sedute del 19 e 26 luglio 1960 da cui l’Atlantic ricavò “This Is Our Music”, con Ed Blackwell in sostituzione di Higgins al quale era stata ritirata la ‘cabaret card’, indispensabile per suonare a New York dove nel frattempo il gruppo si era trasferito.
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ImageDopo il pianista Roberto Cipelli, il contrabbassista Attilio Zanchi, il sassofonista Tino Tracanna e in attesa di Paolo Fresu che firmerà il conclusivo capitolo di questo “Pentamerone” – cinque cd, ognuno dedicato alle composizioni di un membro del gruppo – è ora la volta del batterista Ettore Fioravanti: dodici brani inediti, più la “Danza della fata dei confetti” da “Lo Schiaccianoci” di Ciajkowski. A ventitré anni dalla sua nascita il quintetto ha raggiunto un grado di maturità e compattezza probabilmente senza eguali nel jazz contemporaneo: lo si comprende fin dalle prime note di “Montevideo”, pervaso da una serenità che si fa incalzante in “DB thinking”, romantica in “Gallantry”, latineggiante in “Alonso Santafé”. Con Tracanna (al tenore e al soprano) che merita un riconoscimento speciale. (Danilo Di Termini)

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