Poco sappiamo di questa nuova indie band inglese che si fa chiamare Rolling Stones: bel nome, peraltro. Anche la Rete, in genere prodiga di gossip e anticipazioni tace, o si incanaglisce in giochi di rimandi che, francamente, portano a poco. Sta di fatto che, come vedremo, questo è un disco geniale e sorprendente, e capiremo perché. Intanto gustiamoci la copertina, con improbabili labbroni e una linguaccia sguaiata che potrebbe anche funzionare da esca, tale è la forza iconografica. Ma è il disco che merita parecchi ascolti, e a orecchie attente. Questi Rolling Stones hanno avuto un'idea geniale, una pensata mai avuta prima da nessuna band, per quanto sembri strano: un intero cd di cover di blues fatto da ragazzotti bianchi. Avete capito bene.
Non c'era arrivato neppure Alexis Corner, neppure Eric Clapton un decennio dopo di lui. Puro blues di Chicago e dintorni, maleducato e sensuale, traversato da folate maligne d'armonica a bocca (il bravo Mick Jagger, dalla sua una bella voce acerba, ma che si farà), e da schitarrate ritmiche finto rozze (un tale Keith Richards) che sono invece frutto di allenamento spietato sulle orme dei grandi neri. Certo, ci dicessero che tra cinquant'anni questa band palpitante sarà ancora lì a suonare blues, magari per distillare un po' di noia da villoni e domestici, ostriche e champagne come fossero salame di Sant'Olcese e barbera, riporremmo il disco con sdegno. Il blues a ottant'anni lo possono fare i neri, non i miliardari cadenti col volo privato per Cuba. Ma ora godiamoci questa fatica “triste e solitaria”. Se lo meritano. (Guido Festinese)