No, non è una faccenda dia “piccoli fan”. E' una questione di classe, eleganza, potenza, che non riescono proprio a svanire. Dici “Hawkwind”, e il novantanove per cento degli ascoltatori distratti e formatisi sulla manualistica a punteggio pensa a “ quei vecchi fricchettoni sballati che credevano di fare i viaggi spaziali” mezzo secolo fa, e infarcivano un “hard rock di maniera di frullii spaziali e rumorini”, quasi dei Pink Floyd da porgere alle orecchie grezze del proletariato. Ovviamente sono solo pregiudizi, e chi ha avuto la costanza di seguire le avventure di Capitan Dave Brock s'è ritrovato, nei decenni, con dischi tanto memorabili e pieni di idee quanto largamente ignorati dai giornali mainstream, perché ognuno è bene che se ne stia nella propria nicchia, a pascersi dei luoghi comuni. Lo scorso anno, quando ancora il Covid non aveva blindato sale da concerto e musica, gli Hawkwind hanno festeggiato il loro cinquantennale. Con una delle migliori formazioni di sempre, peraltro, ad affiancare un Brock con parecchi capelli in meno, ma la cloche dell'astroave salda nelle mani. Ricomparso anche il grande Tim Blake a theremin e chitarra, uno che su psichedelia e hard prog potrebbe tenere una cattedra universitaria, e via con la musica, dipanata su due cd.
Diversi brani dall'eccellente All Aboard the Skylark (altro disco recente ignorato: colpevolmente), quasi tutti i classici lontani, diverse puntate in gemme strane e possenti tratte da Warrior on the Edge of Time e perfino Electric Tepee. La forza sia con loro per altri cinquant'anni. (Guido Festinese)