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Jazz Monografie Oriente e Occidente: incontri culturali di rock, jazz, musica indiana e africana
 

Oriente e Occidente: incontri culturali di rock, jazz, musica indiana e africana

Le radici storiche della musica indiana sono molto antiche. Esse risalgono ai libri delle sacre scritture della tradizione induista. Uno dei quattro Veda, il Samaveda, è infatti una raccolta di inni e versi sacerdotali, da cantarsi impiegando particolari melodie, in occasione dei riti religiosi in onore della Divinità. Tra secondo e terzo secolo d.C venne poi composto il primo trattato sulla musica, il Natya Shastra, per oltre mille anni punto di riferimento musicale della cultura indiana.
I due principali sistemi della musica indiana sono quello indostano e quello carnatico, diffusi, rispettivamente, nel nord e nel sud dell'India. Il tema principale della musica indostana è la lila: una singola linea melodica, suonata da antichi strumenti a corde pizzicate, percussioni (tra cui le tablas), flauti, sitar, violini e chitarre. La musica carnatica è basata invece sempre sul concetto del raga. Le testimonianze primarie e i documenti in merito risalgono almeno al XV secolo.
La musica indiana nasce come monofonica, con il tambura che tiene note di bordone. Il canto, nella tradizione indostana, si articola in ornamenti e melismi, con un ritmo che si velocizza in modo graduale. L'aspetto ieratico è onnipresente: nella musica carnatica, all'esecuzione si accompagna la benedizione degli astanti. Si tratta di tradizioni, insieme musicali e spirituali, note nell'Occidente da un tempo relativamente recente. Il famoso viaggio in India dei Beatles, voluto soprattutto da George Harrison, fu il primo passo celebre di un lento avvicinamento culturale, ma molto più importanti si rivelarono le due partecipazioni di Ravi Shankar (il maestro del sitar e forse ancora oggi il musicista indiano più noto) ai festival di Monterey (1967) e di Woodstock (1969). In quelle due occasioni, per la prima volta la musica rock occidentale scoprì davvero l'India e i suoi strumenti. Si creò dunque il primo ponte fra Oriente e Occidente, che permise di portare in Europa e in America l'arte di maestri prima sconosciuti, organizzando per loro appositi concerti dal vivo. Una volta rotto così il ghiaccio, la diffusione fu, via via, più ampia. Lo stesso Shankar, anche collaborando con Harrison, diede una pronunciata spinta, in Occidente, alla musica indiana (Alain Danielou, Music and Power of Sound, Rochester, Inner Traditions, 1995). Nel 1985, con gli Epidemics dello zappiano Steve Vai, Shankar si confrontò anche con la nostra elettronica, realizzando un album splendido per sintetizzatori, drum machine, chitarra elettrica e sitar, pubblicato dalla tedesca ECM e da riscoprire.


Birds of FireForse ancora più fondamentale e determinante fu il contributo della Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, nata nel 1971 negli Stati Uniti e strepitosa unione di musicisti formatisi, in parte, alla scuola di Miles Davis. L'ideatore del progetto fu il britannico McLaughlin, uno dei chitarristi maggiori di tutto il Novecento. La formazione originale comprendeva, oltre a lui, Jan Hammer (alle tastiere, poi con Jeff Beck), Jerry Goodman (violino, già nei progsters Flock), Rick Laird (al basso) e l'istrionico Billy Cobham (batteria). Tra il 1971 ed il 1973, oltre ad esibizioni rimaste memorabili, il quintetto registrò capolavori che sono all'origine della fusion, luminosi ed intricati, come Inner Mounting Flame (1971, definito al suo apparire dalla critica come post-coltranismo elettrico), Birds of Fire (1973, forse il vertice assoluto della band, e tra i picchi musicali dell'intero decennio), Live Between Nothingness and Eternity (1973, registrato al Central Park di New York). Ottimi anche gli LP successivi, dalla line-up rinnovata e aperta: l'orchestrale Apocalypse (1974), l'eccellente Visions of Emerald Beyond (1975, un ritorno al sound degli esordi) e il sottovalutato Inner Worlds (1976).
Nei primi anni Settanta, McLaughlin era molto influenzato dalla filosofia indiana – si ascolti anche il suo Love, Devotion and Surrender (1973), con Carlos Santana –, e nello specifico da quella di Sri Chinmoy. Fu tra l'altro lo stesso guru a suggerire il nome di Mahavishnu (che significa in una sola parola Divina compassione, potere e giustizia). Sri Chinmoy fu una guida spirituale essenziale per la band di McLaughlin, partecipando a tutti i suoi lavori, in veste di mentore e all'occorrenza di paroliere. Anche Chick Corea, tra i più importanti tastieristi della fusion di scuola davisiana, fu un devoto discepolo del guru indiano.
Nel suo approccio al jazz-rock, la Mahavishnu Orchestra usava le scale modali della musica indiana: l'intervallo di ciascuna nota, rispetto alla tonica, era quindi solo indicativo, in quanto una stessa nota (un re bemolle, per esempio) ha sfumature di intonazione diverse se appartenente a scale di base diverse o se utilizzata nell'esecuzione di raga diversi. Le scale indiane suonarono facilmente comprensibili all'orecchio occidentale (e infatti la Mahavishnu Orchestra ebbe un grande successo, di pubblico, oltre che di critica), poiché virtualmente identiche alle nostre diatoniche maggiori. Da parte sua, McLaughlin lavorò moltissimo, con cura ed attenzione, sulle strutture di intervalli, con un sapiente alternarsi di linee melodiche ascendenti ed escursioni improvvisate. Il chitarrista impiegava una dodici corde, con cui suonava, con grande velocità e disinvoltura, scale pentatoniche e gruppi di tetracordi della tradizione orientale, in un contesto musicale oltremodo potente e di impatto, ricco di cromatismi e fantasia in sede esecutiva. Incorporando nella tradizione jazz-rock che aveva – già con i Lifetime di Tony Williams, tra il 1969 ed il 1970 – contribuito a creare, gli elementi modali della musica indiana, McLaughlin riscrisse e ampliò le regole dell'armonia tonale: una grammatica e una costruzione sonora, attentissime al suono e all'effetto timbrico, inedite per l'epoca. Anche i titoli – scelti da Chinmoy, per lo più, in accordo con McLaughlin – erano profondamente intrisi di venature mistiche: autentici inni metafisici alla trascendenza e allo spazio cosmico.
ShaktiQuello della Mahavishnu Orchestra fu un jazz-rock fondato sullo svolgimento di una serie di improvvisazioni melodiche e relative intonazioni di note, secondo gli insegnamenti musicali tipici dell'India settentrionale, impiegando raga e frasi musicali archetipe, fatte incontrare con il dualismo tonica-dominante caratteristico della musica occidentale. Nel 1976, McLaughlin accantonò in modo temporaneo l'esperienza della Mahavishnu Orchestra – rimessa assieme, solo in seguito, fra 1984 e 1987 – per andare ancora più oltre, in direzione di una musica totalmente acustica. Fondò infatti gli Shakti, gruppo indo-inglese con Zakir Hussain. Al loro apparire – è rimasta celebre l'esibizione del 1976 al Jazz Festival di Montreux – gli Shakti divennero famosi per la loro miscela di jazz – il rock, stavolta, era pressoché assente – e di tradizione modale indiana, visti poi come uno dei primi esempi storici di world musica. Incisero tre album, fra il 1976 e il 1977. Vent'anni dopo, McLaughlin volle riformarli e ripetere l'esperienza, stavolta con il flautista indiano Hariprasad Chaurasia. Nel 1997 il nuovo nome, non privo di nostalgia, fu Remember Shakti: questa volta, cinque dischi quasi tutti dal vivo, pubblicati fra il 1999 e il 2006.
L'etno-musicologia, studiando diversi sistemi modali, ha ravvisato l'assimilazione, da parte di musica e cultura occidentali, di tradizioni non solo indiane, ma altresì africane. Esse sono evidenti, esplicitamente dichiarate, nel free jazz di John Coltrane e dell'Art Ensemble of Chicago. Così come l'India, anche l'Africa si è rivelata un serbatoio di tradizioni musicali modali, che si sono mantenute parallelamente all'influenza occidentale e che con questa hanno interagito. Un importante esempio è la tradizione, culturale e musicale insieme, del Mali, con canti costruiti da figure melodico-ritmiche edAfrica Brass improvvisazioni solistiche, usando strumenti come lo xilofono, e vari tipi di liuto. Altro esempio di rilievo è il sistema musicale polifonico dei Pigmei, stanziati nella foresta equatoriale dell'Africa centrale e capaci, non senza orgoglio, di perpetuare le forme originarie della loro tradizione, sino a ritrovare proprio nella musica una maniera per unire sotto tratti comuni etnie diverse. Spesso in fase di ascolto delle loro improvvisazioni – che suonano altre soltanto perché lontane dalle abitudini del nostro orecchio – è difficile individuare il tema principale nell'intreccio delle voci che si stratificano ciclicamente, con variazioni e controcanti ad andamento eterofonico e contrappuntistico.
Nell'Africa contemporanea, ad esempio in Congo, si è iniziato a fare musica con strumenti di area occidentale (basso elettrico, chitarra e batteria), valorizzando elementi forti della tradizione, fra cui non solo la polifonia, ma anche poliritmi e circolarità. Uno stile che ha influenzato, non poco, il jazz-rock del Miles Davis del complesso e vario On the Corner (1972, realizzato con McLaughlin e Paul Buckmaster), il progressive dei King Crimson (periodo 1981-1984) e la new wave tinteggiata di funk robotico dei Talking Heads (Fear of Music del 1979 e Remain in Light del 1980). Né vanno dimenticate le storiche collaborazioni, sin dal 1972, del nigeriano Fela Kuti con Ginger Baker, tra i più grandi drummer del XX secolo. L'Africa, al pari dunque dell'India, è così sbarcata in America e Inghilterra. Del resto, le lontane origini storiche del blues americano vengono dal continente nero e le si possono trovare in John Henry e Pink Anderson, in Barbecue Bob e Son House, in Mississippi John Hurt e nel Reverendo Gary Davis.
(Davide Arecco)

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