L’impossibilità di coltivare le terre e la morte del bestiame spinse oltre un milione di persone a muoversi in direzione della California, dove i nuovi arrivati furono prima guardati con sospetto se non con disgusto (ricorda qualcosa?) e subito dopo utilizzati per i lavori più umili (ricorda qualcosa anche questo?). La vicenda ispirò a John Steinbeck il romanzo Furore che John Ford trasformò in film e Guthrie sintetizzò negli otto epici minuti di Tom Joad, colonna portante del disco e canzone così lunga per le tecniche discografiche dell’epoca da dover essere divisa in due parti. Il viaggio verso ovest non è solo sequenza di luoghi, ma anche di stati d’animo: disperazione (I Ain’t Got No Home), speranza (Dust Can’t Kill Me), fierezza a dispetto delle umiliazioni subite (Blowin’ Down This Road), rabbia per le sopraffazioni da parte di capi e capetti (Vigilante Man), amara ironia per il denaro che manca (Do Re Mi), malinconia per gli inevitabili commiati (So Long It’s Been Good To Know Yuh). Fra le molte canzoni dell’album destinate a essere riprese da altri artisti (da Pete Seeger a RY Cooder a Christy Moore), la più famosa è anche l’unica a non essere del tutto in tema, tanto da non comparire nei 78 giri originali. Pretty Boy Floyd narra infatti le gesta di una sorta di Robin Hood dell’Oklahoma la cui carriera criminale si svolse fra il 1925 e il 1934. Non fu certo un galantuomo, ma i contadini delle sue parti lo trovavano sicuramente migliore rispetto a tanti banchieri perché “alcuni ti rapinano con una pistola a sei colpi, altri con una penna stilografica”. Anche qui, a parte il tipo di penna, nulla che non si ripeta ancora oggi. (Antonio Vivaldi)
Nota: chi sia interessato ad approfondire l’argomento troverà utili spunti nel bel volume “Le canzoni di Woody Guthrie” (Feltrinelli, 2008) a cura di Maurizio Bettelli
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