Concerti

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THE DREAM SYNDICATE - 29 maggio 2013  a Mezzago

29 MAGGIO 2013

MEZZAGO (MI) - BLOOM
Via E. Curiel, 39

Apertura porte Ore: 20.00 - Inizio Concerto Ore 21.00

prezzo del biglietto:

posto unico: 20 Euro + diritti di prevendita

 

Biglietti in vendita da martedì 12 febbraio

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NATE BROWN & ONE VOICE - Concerto gospel
Lunedì 17 dicembre 2012
Sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale, ore 21
Per il tradizionale appuntamento natalizio con la musica sacra afro-americana, che il Museo del Jazz organizza ogni anno per festeggiare con la cittadinanza l'arrivo delle feste, direttamente da Washington D.C. Nate Brown & One Voice, un gruppo gospel che rinnova, ad ogni brano, la potenza e la duttilità di una delle musiche più coinvolgenti nate sul suolo americano. Gli One Voice diretti da Nate Brown sono cinque cantanti selezionati dalla corale di venticinque elementi "Nate Brown & Wilderness", uno dei cori gospel più apprezzati negli Stati Uniti. 

Per l'occasione del concerto genovese, la band proporrà un repertorio decisamente in linea con la tradizione più classica del gospel, aggiungendo anche qualche escursione in brani di composizione, comunque in linea con il filone storico del tipico canto religioso nero.
Nate Brown, il direttore musicale di questa formazione, sassofonista, compositore, vocalist ed arrangiatore ha frequentato il Duke Ellington College of Music di Washington, considerata una delle scuole musicali più selettive e prestigiose degli Stati Uniti, contribuendo poi al successo nel mondo della Duke Ellington Jazz Band, per perfezionarsi poi al Berklee College Of Music di Boston. Il suo primo gruppo Gospel è stato Nate Brown & Wilderness, con il quale a partire dal 2003 ha registrato un buon numero di dischi, attività condotta in parallelo con quella di insegnante gospel (Music Ministry) per la Comunità cristiana battista. Attualmente Nate Brown dirige musicalmente la First Baptist Missionary Church. In parallelo all'attività gospel, Nate Brown ha avuto modo di suonare con musicisti di livello intrernazionale quali Wynton Marsalis, Roy Hargrove, Tyron Powell.
Ingresso: intero 10 euro, ridotto 5 euro, soci Louisiana e Museo del Jazz.

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La notte fuori dal Palaolimpico di Torino è fredda, l'aria pungente s'insinua sotto i giacconi e i fan in fila cercano di ridere e di muoversi per scaldarsi, le mani sprofondate nelle tasche in attesa della fatidica apertura, che per fortuna arriva in orario. Gli inglesi Mcbees, special guest della serata, non sono niente di eccezionale. A parte qualche trovata strumentale azzeccata, sembrano un po' troppo piatti e monocordi, appiattiti su un indie rock sterile, forse per colpa della voce lamentosa di Orlando Weeks. In compenso i Black Keys sono sorprendenti. Non ho mai sentito un muro del suono così potente e ben strutturato, un impatto ritmico così coinvolgente con la batteria di Patrick Carney sempre al centro della scena, con l'aggiunta discreta del basso e della tastiera. Dan Auerbach lascia che i riff si sfilaccino, sospesi dentro le pause ben calcolate, ma poi li riprende un attimo prima che muoiano, traendone nuova energia. Tutto il pubblico si scatena con i ritornelli orecchiabili dei pezzi più famosi, semplici, accattivanti e onomatopeici eppure con tutta la perizia tecnica di un'ottima alternative band. Di fronte a me ho una folla che salta a tempo – la marea è punteggiata dalle luci digitali dei telefonini e da quella più romantica e tradizionale degli accendini; mi volto e dietro di me lo spettacolo è simile, ma forse ancora più impressionante perché lo vedo dal basso, con una prospettiva schiacciante. A ogni giro di chitarra, migliaia di piedi battono all'unisono nel parterre gremito, nelle tribune e persino in alto – nelle "piccionaie" – dove di solito non c'è nessuno perché la visuale è pessima. Le immagini scorrono frammentate sugli schermi. Motivi a pois sgranati e onde acustiche scure stile anni Settanta, paesaggi di desolazione urbana e strade polverose congiungono le due anime del gruppo: la venatura blues, vagamente psichedelica, e la desertica propensione al viaggio (sia spaziale sia mentale), collocano il gruppo a metà strada tra i grandi maestri (Led Zeppelin, Rolling Stones, ZZ Top) e le voci più ruspanti della scena garage (Josh Homme, i Cramps o i Clash). La gente impazzisce letteralmente ai primi accordi di Lonely Boy, che ha scalato tutte le classifiche rendendo il gruppo conosciutissimo anche nei circuiti meno chiusi, e ciascuno imita a modo suo il ballo del video – diventato un tormentone persino su MTV. In effetti, le persone che ho intorno non potrebbero essere più eterogenee: ragazzi in Converse e camicia a quadri e ragazzine pulite e con gli occhiali affianco a tipe che si mettono in mostra; signori di una certa età – già un po' brizzolati – e personaggi vestiti da mod. Tutti sono presi dalla magia e intonano i versi struggenti di Little Black Submarines ("... Everybody knows / That a broken heart is blind"), prima di essere di nuovo risucchiati nelle atmosfere martellanti di Money Maker. I bis sono un altro tuffo nel puro incanto del live, con gli specchi rotanti di una merking ball gigante che promettono una dolcissima Everlasting Light. La performance si chiude con le note strascicate di I Got Mine ma, una volta usciti, i giovani che si accalcano alle bancarelle e quelli che s'incamminano verso la stazione continuano a canticchiare un ritornello che si è attaccato al cervello e non se ne andrà, almeno per un paio di giorni. (Elena Ansaldo)

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CALEXICO ALL’ ALCATRAZ DI MILANO, 13 novembre 2012

Il ritorno dei Calexico in Italia, che coincide con la recente uscita di Algiers, il convincente nuovo capitolo del gruppo guidato da Joey Burns e John Convertino, si materializza in questa serata all’ Alcatraz di Milano; temperatura primaverile fuori, caldo  torrido stile Arizona sia sopra che sotto il palco della discoteca milanese. I due leader sfoggiano delle americanissime camicie a quadri, ma mentre Burns cerca lo spot come frontman, con quella faccia pulita da bravo ragazzo americano, la gran parte del pubblico sembra convergere, con lo sguardo, verso  il compassato e preciso drumming di Convertino, occhiali da intellettuale e malcelate sembianze di bracciante del sud. La set list risulta piuttosto inchiodata verso l’ultimo periodo, con frequenti scodate ‘latine’ guidate dalle trombe di  Jacob Valenzuela e Martin Wenk. Negli ultimi concerti, peraltro la band si dedica anche ad eseguire una serie di cover, che, nella serata milanese sono state ‘Corona’ dei Minutemen, ‘Alone Again Or’ dei Love e persino ‘For Your Love’ degli Yardbirds, durante la quale anche il compostissimo batterista perde finalmente un po’ del suo aplomb professorale, uscendone pure un po’ spettinato…Un’ottima performance, dunque, compresi i  tre pezzi regalati come  bis e terminata in un opportuno  controtempo con la delicata ‘The Vanishing Mind’,  per poi salutare  il pubblico col grido ‘…the best concert ever!’ come, probabilmente,  succede tutte le sere. (Fausto Meirana)

foto: Meirana

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JOE JACKSON - The Duke Tour

Il teatro è pieno, l'età media è alta (ma cosa pretendere da uno che ha pubblicato il suo primo album nel 1979?) e Jackson arriva puntuale, come conviene a un signore della sua età, che non deve fare troppo tardi. Entra, si siede alla tastiera e da solo accenna "It Don't Mean a Thing (If it Ain't Got That Swing)", brano con cui chiuderà il concerto (bis a parte), ma stavolta insieme al gruppo. Il disco da cui prende spunto il tour è infatti il recente e incerto "The Duke", omaggio poco riuscito ad un grande amore musicale del nostro. Ma l'amore a volte non basta e nemmeno il passaggio dal solco al palco aiuta, se gli arrangiamenti sono quelli pomposi di una formazione ridondante (tra cui spicca il violino di Regina Carter), una ritmica che pesta come i Level 42 di un tempo e un chitarrista che sembra una copia sbiadita di Peter Frampton. Insomma niente di più lontano dallo spirito di Ellington, che ne esce spesso con le ossa rotte (in particolare nel medley "Perdido/Satin doll" dove la tastierista canta come un'animatrice da crociera) o nel migliore dei casi – l'altro medley "I'm Beginning to See the Light/Take the A Train/Cotton Tail"- senza suscitare troppe emozioni. Le cose migliori arrivano con i brani originali – l'iniziale "It's different For Girls", "Home Town" in versione acustica, l'immancabile "Steppin' Out" – e nei due bis: una "Is She Really Going Out With Him?" con basso tuba e fisarmonica, quasi waitsiana nelle atmosfere e una "Salt & Pepper" in cui riaffiora lo spirito punk degli esordi. Poco per essere entusiasti, abbastanza per aver qualcosa da ricordare. (Danilo Di Termini)

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RED WINE BLUEGRASS PARTY 4 - Venerdì 16 novembre

Dopo tre fortunate edizioni al Teatro della Gioventù con ospiti internazionali quali Tim O'Brien (2009), Laurie Lewis & Tom Rozum (2010) e Doyle Lawson & Quicksilver (2011), The Red Wine Bluegrass Party si rinnova e per la 4° edizione si trasferisce nella prestigiosa e suggestiva cornice del TEATRO GUSTAVO MODENA, ospitando un leggendario artista-simbolo della musica acustica folk/bluegrass d'oltreoceano, PETER ROWAN. Garantita la presenza al Teatro Gustavo Modena anche di altri ospiti a sorpresa, che si uniranno ai Red Wine per festeggiare l'evento, come in un vero e proprio Party!

Prevendita:
Disco Club, Via S. Vincenzo 20R - tel. 010 542422 - biglietto 20,00 € + 1,00 € (prevendita)

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