Tara immediata sulla non appetibilità commerciale della copertina spartana, un primo piano neppure troppo nitido di J.J. Cale con cappello, nei suoi ultimi anni. Forse gli sarebbe piaciuta, schivo e orso com’era. Qualcuno ha detto che la musica di J.J. Cale non abita in un tempo normale: lo attraversa senza un passato o un presente. Tra cinque o cinquant’anni avrà lo stesso senso che quarant’anni fa. E’ il precipitato minimale e scabro dell’inimitabile (e dunque imitassimo: come la Settimana Enigmistica) Tulsa Sound, brani che si dipanano su sornioni mid tempo e vivono di lampeggianti illuminazioni blues, epifanie sottili country e rhythm and blues, schegge garbatamente jazz. Eric Clapton e Mark Knopfler gli devono molto, probabilmente moltissimo. Lui se n’è andato a 74 anni nel 2013, in punta di piedi, senza fare troppo rumore, come suo solito. Sua moglie, Christine Lakeland ha messo mano ancora una volta ai suoi prodigiosi e silenti archivi, e cavato anche queste quindici tracce. Una meraviglia. Ciò che per J.J. Cale era uno scarto, un avanzo, un qualcosa che non lo convinceva granché, per le nostre orecchie (e per quelle di tanti autoreferenziali signori della chitarra) è un miraggio e un’oasi vera assieme. (Guido Festinese)