Steve Wilson, nototiamente, è il musicista più occupato del mondo. Quando non è chiuso in sala con mixer a rivedere il catalogo di qualche gigante del prog classico è comunque al lavoro con una delle mille derive discografiche che lo assorbono. Alla faccia di chi si ricorda anche e sopratutto il Wilson leader dei Porcupine Tree, che ormai esistono solo nei ricordi. Perché, anno più anno meno, si tende a dimenticare che il signore del neoprog ha comunque un trentennio di attività sulla schiena, nonostante l'aspetto da nerd eterno ragazzo da computer. I suoi dischi da solista negli ultimi anni hanno rappresentato un po' una summa di dove si poteva arrivare all'inizio del terzo millennio: belle melodie malinconiche, occasionali sciabolate metal, derive psichedeliche d'antan, classe ed eleganza nella scrittura e nella scelta degli arrangiamenti. Qua e là qualche segno di stanchezza ha cominciato ad affiorare, sotto la polpa solida dell'impianto: ad esempio nel ripetitivo Hand. Cannot. Erase. Qui si cambia tiro e registro: se i momenti prog “classici” esistono, in un paio di occasioni si ascolta un Wilson più pop, più lieve. E come lui stesso ha dichiarato, i modelli di questo To the Bone li trovate nel decennio più "sospetto", per il prog: quello di XTC e Talk Talk. Certo, quando prende in mano le cose lui è difficile avvertire cadute di stile. Ma chi si attendeva l'iterazione di una formula bella ma anche un po' logora qui sarà sorpreso. (Guido Festinese)