La critica italiana, nel complesso, ha lavorato di sega elettrica e mazza ferrata nel recensire il nuovo disco di Mike Oldfield. Al contrario di quella anglosassone. In genere, quando non si hanno argomenti a sufficienza per dichiarare forme d'odio puro e auto-alimentato per stagioni musicali che appaiono agli antipodi di certa sbrigativa essenzialità da tre-accordi-tre-per-carità-sennò-sembra-jazz, magari con un po' di elettronica sparsa per mascherare il tutto, si liquida tutto con una battuta. E se uno provasse a scrollarsi di dosso la pigrizia e si mettesse semplicemente ad ascoltare, come si suol dire, senza pregiudizi? Succederebbe che troverebbe un signore che (apparentemente) torna sul luogo del benedetto delitto della metà degli anni Settanta, e riscrive una suite conforme divisa in due parti ognuna della durata esatta della facciata di un ellepì. Suonandosi tutti gli strumenti – bene - esattamente come vuole lui. Allora aveva ventidue anni, ora ne ha sessantatre. Nel mezzo un sacco di passi falsi.
E allora? Non pensate di trovare un capolavoro con quelle spumeggianti ingenuità che sembravano trucchi cavati dalle tasche di un bambino del Piccolo Popolo, diciamo quelle dei primi tre dischi, roba che aveva tutti i numeri per sembrare tappezzeria pre new age, e riusciva ad articolarsi invece in qualcosa di misteriosamente “altro”. Qui c'è un musicista piuttosto disilluso e un po' amareggiato, che quando trova la linea melodica giusta ci lavora con il misurato stupore di un veterano, e quando non la trova sa come aggirare l'ostacolo con scaltrita destrezza. Ma dei quaranta minuti di Return to Ommadawn la metà abbondante, e forse più, è grande musica senza etichette. Sennò rivolgersi altrove, senza rancore. (Guido Festinese)