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JAZZ FUORI TEMA 4 - Tortona – Piazza Arzano (29 giugno -1 luglio)
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JAZZ FUORI TEMA 4 - Tortona – Piazza Arzano (29 giugno -1 luglio) Hot

Con l’esaurimento delle grandi scuole jazzistiche e, per contro, la massiccia infiltrazione del linguaggio afroamericano nella maggiorparte delle musiche popular del mondo, la parola jazz è diventata un concetto sempre più vago dal punto di vista stilistico, ma non da quello filosofico: sinonimo di mescolanza, sperimentazione, rischio, sorpresa, improvvisazione. Manifestazioni come Jazz Fuori Tema, quest’anno alla quarta edizione, fungono in questo senso da promemoria. Grazie all’attenta e demiurgica direzione artistica di Alberto Bazzurro, la tre giorni tortonese si è confermata come una delle realtà più stimolanti e trasversali dell’intero panorama. Nel centenario dalla morte di Giovanni Pellizza da Volpedo, socialista e grande pittore del simbolismo e divisionismo italiano, autore del celebre Quarto Stato, la rassegna si è aperta con il bassista elettrico Andrea Rossi Andrea, padrone assoluto del proprio strumento ma soprattutto artista visivo, filosofo del Fluxus e non solo, amante della percezione sinestesica. Molto sinteticamente, il Fluxus è un movimento culturale nato in Germania nei primi anni ’60 “che rivendica l'intrinseca artisticità dei gesti più comuni ed elementari e promuove lo sconfinamento dell'atto creativo nel flusso della vita quotidiana in nome di un'arte totale”.

Per Andrea Rossi, il concetto d’arte, in un mondo ipoteticamente “giusto”, potrebbe tranquillamente non esistere: tutti saremmo artisti senza nemmeno più accorgerci della differenza tra arte e vita. Il discorso potrebbe allargarsi alla profonda differenza tra musica d’uso e funzione, tipica delle espressioni propriamente popolari, e musica d’arte tout court o addirittura di semplice intrattenimento. Andrea Rossi, insomma, è artista mitopoietico e “provocatore”: la finzione sta fuori dal palco, mentre la performance indica una possibile via di fuga verso un’autentica realtà. Non ci si inganni però: Il suo modo di esprimersi resta comunque poco catalogabile, data l’ampiezza dei suoi riferimenti culturali e la voglia di lasciare molto campo alla libera interpretazione di ciascuno. A Tortona, Rossi ha fatto vivere un vero e proprio happening, tra improvvisazioni al basso costruite su loop ed effetti sonori, schizzi e bozzetti estemporanei ad opera sua ma anche di Alberto Bazzurro e di Pietro Bisio, un pittore chiamato appositamente nell’ambito delle celebrazioni in onore di Giovanni Pellizza, e l’intervento (a sorpresa) di Stefano Pastor al violino e Stefano Deagatone al sax tenore che, improvvisamente apparsi da due angoli opposti di Piazza Arzano, hanno preso a costruire un puntuale e proficuo dialogo con il basso elettrico di Rossi Andrea. A primeggiare su tutto, il simbolo dell’antenna, disegnata o materialmente presente un po’ ovunque, in cui l’appassionato radioamatore Rossi sembra identificarsi totalmente. Oltre che essere il trait d’union tra le due anime del nostro, quella musicale e quella visiva, l’antenna è soprattutto la metafora di una ricettività paradigmatica per continuare a creare una musica che vive sulle più disparate influenze ma non appartiene ad alcuna definizione. Per chiunque voglia saperne di più, di Andrea Rossi segnaliamo gli ultimi intriganti tre dischi (Splasc(h) Records) in trio con il batterista Tiziano Tononi e il trombettista Luca Bonvini, entrambi splendidi musicisti dall’ampio raggio d’azione. La sera successiva, è stata la volta del quartetto Ulysses, un ensemble friulano costituito per l’occasione guidato dal clarinetto e dalla bella scrittura di Daniele D’Agaro.


Una produzione del festival fortemente voluta da Alberto Bazzurro e decisamente riuscita, visti gli strettissimi tempi di preparazione. Un’idea per riflettere sul significato del viaggio e dell’inesplorato. Tra parti scritte e sezioni improvvisate, che hanno lasciato spazio alla creatività di ciascuno dei componenti, il quartetto si è mosso sulla scia di percorsi artistici riconoscibili: dalla Liberation Music Orchestra a Carla Bley fino al nonetto di Lester Bowie. Ha brillato l’esuberante personalità di Mauro Ottolini alla tuba e soprattutto al trombone. Musicista eclettico, a volte un po’ troppo caricaturale, Ottolini sfoggia un controllo eccezionale e un timbro epitome della storia del jazz sul trombone: da Lawrence Brown a Roswell Rudd con tutti i passaggi intermedi di sorta. In sostanza una specie di Gianluca Petrella più solare e meno intimista: una sorpresa. Il gusto classico, raffinato, anche se non meno spregiudicato, di Massimo De Mattia ai flauti e Denis Biason alla chitarra e al banjo, già protagonisti di un collaudato duo, ha poi fornito il giusto equilibrio e contrasto all’intera tavolozza timbrica del quartetto, che ha terminato il concerto con una sensibile e accorata versione di Azure, tra le molte splendide composizioni di Duke Ellington. Ha poi chiuso il trittico d’appuntamenti la prima mondiale del Borah Bergman (pianoforte) / Stefano Pastor (violino) duo, preludio alla registrazione di un cd per l’italiana Soul Note. Bergman è da tempo uno dei più grandi pianisti del mondo, famoso per la velocità con cui si muove lungo la tastiera e per l’incredibile, quasi mostruosa, indipendenza delle sue mani. Interpreta un free jazz di confine, perché molto influenzato da pianisti “afroamericani” come Lennie Tristano e Cecil Taylor, ma anche dalle avanguardie contemporanee novecentesche. D’altronde, come ha spiegato in un recentissimo articolo Claudio Lugo (musicista, professore, protagonista con i Picchio dal Pozzo di una delle più belle pagine genovesi di musica creativa a 360 gradi), i due mondi, che certamente si parlavano già in precedenza, hanno cominciato a mescolarsi quando, a partire dalla fine degli anni ’60, anche in ambito colto si è cominciato a parlare di improvvisazione.


ImageBergman è, comunque, fortemente inscritto nella storia del jazz: il suo modello estetico di riferimento è, a suo dire, l’armolodico sax di Ornette Coleman. Anzi, Borah sostiene addirittura che pensa alle sue mani come a due sax ornettiani che improvvisano in contemporanea: la suggestione è forte e vivo il ricordo di Roland Kirk, capace di suonare tre sassofoni nello stesso tempo. Il genovese Stefano Pastor è, dal canto suo, musicista dalla formazione classica, con il tempo avvicinatosi al jazz, all’improvvisazione, alla strenua ricerca timbrica, alla musica vissuta come grido di protesta ancestrale. Il suo è un suono rotondo, pastoso, quasi insufflato, come si conviene ai grandi del jazz immediatamente riconoscibile, cercato e trovato attraverso precisi accorgimenti sullo strumento. Incredibile come sembri uno strumento a fiato e allo stesso tempo ricordi il violino di Stuff Smith. Unico, quindi, l’impasto sonoro tra il pianismo limpido e magro di Borah Bergman e il timbro grasso e sporco di Stefano Pastor. I due si sono espressi in una serie emozionante di improvvisazioni a cascata, tra guizzi improvvisi, sgocciolamenti, scale impazzite, rumori sordi, trovando anche il tempo e la sensibilità per abbandonarsi ad alcuni momenti di intenso lirismo. Oltre, infatti, a reinterpretare la celebre Round Midnight di Thelonious Monk, toccanti sono state le ballate in onore di Bud Powell e di Arrigo Pollillo, fondatore e storico direttore di Musica Jazz. Ad Arrigo Polillo va il merito di aver fatto in modo che Bergman approdasse in Italia, e nel suo ricordo l’ormai ultraottantenne Borah si è visibilmente emozionato. (Marco Maiocco)

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