Nella montagna di riedizioni, box stipati di remix più o meno significativi, dischi in origine singoli che diventano mostruose iperfetazioni da cinque, aver notizia che esce un triplo cd di Rory Gallagher è una bella boccata d’ossigeno. Il chitarrista irlandese che maneggiava la slide come un consumato bluesman del Delta trasferitosi a Chicago, il rocker che grondava a ogni concerto litri di sudore misto a whisky all’alba del 2019 non è nel pantheon degli intoccabili del rock. Eppure Jimi Hendrix, a domanda diretta se lui fosse il miglior chitarrista del pianeta rispose beffardo: “Andatelo a chiedere a Rory Gallagher”. Fu in predicato per sostituire Mick Taylor negli Stones, Ritchie Blackmore nei Deep Purple, per fortuna non accettò nessuna di quelle proposte, e andò avanti a modo suo, in direzione, per dirla con Faber, “ostinata e contraria”.
Un cuore generoso grande così, un suono che Brian May dei Queen ha ammesso di aver studiato nei dettagli, una forza della natura intrisa di cultura del rock, del blues, e di quant’altre spore della grande famiglia afroamericana vogliate includere. Non fece in tempo a vedere i suoi cinquant’anni, Gallagher, con un fegato trapiantato e tante note ancora da accarezzare con la sua ruvida Fender Sunburst che ora è incastonata in un angolo della sua cittadina irlandese, Ballyshannon. Blues raccoglie rare tracce elettriche nel primo cd, acustiche nel secondo, e memorabili sprazzi dal vivo nel terzo. Ascoltato di fila, ti fa venir voglia di archiviare il novanta percento delle produzioni dei supposti maghi della sei corde contemporanei. Perché maneggiare fotocopie esangui di Harry Potter, se qui c’è un libro prezioso di veri incantesimi blues rock? (Guido Festinese)