Il lockdown non è stato quel formidabile acceleratore di creatività che tutti invocavano, avendo a disposizione tempo e spazio per pensare. Gli animali in gabbia, Sapiens compreso, tendono a deprimersi, non a gustarsi il riposo necessitato. È successo anche a Pivio: che aveva appena finito di presentare il gran disco del ritorno degli Scortilla, e s'è trovato come tutti a misurare gli spazi di una casa e guardare gli strumenti muti. Poi un giorno è scattato il campanello, e, di getto, è nato questo nuovo disco solistico che, lo diciamo subito, va annoverato tra le cose più belle e intense prodotte dal multistrumentista, rocker e compositore di colonne sonore. Certo, sappiamo qual è il taglio dei brani di Pivio, quando scrive per sé e per chi vuol bene alla sua musica oscura e piuttosto inquietante: è un'estetica dark dove entrano lunghe scie elettroniche, la voce che mentre racconta sembra negarsi, un vago sentore di apocalisse incombente, o forse già strisciante. Come di fatto è successo. Sono brani che per certi versi prevedono la cupa e poeticissima claustrofobia del gran signore del dark prog Peter Hammill, non a caso amatissimo anche dalla generazione nelle scie del punk e del post punk, e il riferimento costante al Duca Bianco e alle sue avventure senza luce tutte straniata eleganza dal rifugio temporaneo che Bowie ebbe fermandosi a guardare il cielo sopra Berlino. Il Covid diventa metafora di quanto siamo (già) diventati: maschere dell'inautenticità, anche quando non abbiamo un pezzo di stoffa sulla bocca e sul naso, e solitudini incrociate e non comunicanti: riuscire a dirlo con la musica e le parole, è un altro colpo da maestro – inaspettato – da Pivio. Aiutano tanti amici musicisti, tutti nomi da scoprire, e a sorpresa appare anche il violino microtonale di Shankar. (Guido Festinese)