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Rock Recensioni BOB DYLAN - Rough and Rowdy Ways
 

BOB DYLAN - Rough and Rowdy Ways BOB DYLAN - Rough and Rowdy Ways

BOB DYLAN - Rough and Rowdy Ways

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Rough and Rowdy Ways
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Leonard Cohen se n'è andato, lasciandoci però un' “Ultima Danza” stregata che, come succedeva nelle favole gaeliche, non consente di uscire dal cerchio. Bob Dylan continua a guidare le danze da qui, da questo mondo. Perché, come ha scritto nel suo verso più magistrale di sempre, ed è qui, in questo ultimo disco, “Non riesco a ricordarmi quando sono nato, e mi sono dimenticato quando sono morto”. Occhio all'ironia scorticante dell'uomo, capace di continue morti e resurrezioni, di colpi di reni e guizzi d'ala, di vedersi assegnare un Nobel per la letteratura senza precipitarsi a ritirarlo perché “impegnato altrove”, di saturare gli ultimi anni con un preoccupante bagno sonoro nella stagione dei “crooner” che furono l'esatto contrario della sua incendiaria generazione di folksinger. Salvo ripresentarsi, a quasi ottant'anni, con un disco capolavoro talmente grande che non si riesce ad acchiappare da nessuna parte, se non per stratificazione vertiginosa di indizi. Come cercare di trattenere tra le dita sabbia caldissima, e pretendere di fermarla lì, senza inseguirne i rivoli. 

 

 Dylan non è mai dove lo cerchi. I'm not there, io non sono lì dove pretendi che sia, ha scritto. Vero, Dylan è sempre un po' più in là. Oltre, dietro, davanti a tutti noi, un passo a lato. Un giorno recente, d'improvviso, ha fatto uscire una canzone da diciassette minuti che si intitola Murder Most Foul, e che spiega perché quel giorno del 1963 è cominciato a morire il sogno di una generazione, assieme a John Kennedy straziato dai proiettili di un killer che ha insanguinato una speranza, oltre che un uomo. Quasi un “talking”, perché l'effetto è ipnotico, e irresistibile assieme, nel continuo sfiorare due centri tonali cullanti. Qualcuno ha scritto che è un brano shakespiriano, nell'imponenza dei rimandi a una storia tutta intera che è anche l'intera storia della musica afroamericana, e della cultura in genere che fece luccicare diversi decenni di storia nordamericana (John Lee Hooker, gli Eagles, Nina Simone, Bud Powell, Thelonious Monk: si può continuare a lungo), qualcuno ha notato che l'accumulo di citazioni incastrate e in rima da una penna a dir poco scaltritamente diabolica è quasi omerico. Shakespeare, Omero, una borghesiana e molto americana biblioteca di Babele che si rivela prisma in rifrazione. Specchio dello specchio. C'è perfino lui stesso, perché verso la fine dice di suonare, in memoria di Kennedy, anche la stessa canzone che stiamo ascoltando, Murder Most Foul. 

Poi è arrivato l'altro disco, Rough and Rowdy Ways. E Dylan ha sfoderato, in pratica, una sorta di disseccata, elegantissima, definitiva versione di Blood on The Tracks parte seconda ritrovando parte degli armonici perduti in decenni di neverending tour, lucidando il vecchio blues reso innocuo dai revival infiniti, e ritrasformandolo in un luciferino attrezzo acuminato e disturbante. Recuperando il senso di quelle ballate avvolgenti e perfette che gonfiavano il vento nelle vele di Blonde on Blonde o di Desire. La prima canzone si intitola “Io contengo moltitudini”, ed è una citazione da Walt Whitman. Lo sapevamo, ma ci eravamo stancati di aspettarlo al varco, Dylan, perché ce ne mostrasse ancora, di moltitudini contraddittorie. Ci ha preceduti lui, sorridendo con i suoi “rough and rowdy ways”. Lui non è qui, è già altrove. E per fortuna che ci ha lasciato questa pista da inseguire. (Guido Festinese)

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BOB DYLAN - Rough and Rowdy Ways 2020-07-11 11:05:39 Guido Festinese
Giudizio complessivo 
 
90
Guido Festinese Opinione inserita da Guido Festinese    11 Luglio, 2020
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