Al netto di tutte le classifiche di Rolling Stone, di tutti “I migliori 100 chitarristi della storia del rock”, ed altri giochini para (pseudo?) intellettuali che servono solo a scatenare ondate di rancori incrociati già identificabili ben prima dell’avvento dei social, quando si scriveva su carta una bella lettera di insulti sprezzanti, Rory Gallagher non è esattamente il primo nome che venga ricordato oggi, tra chi ha fatto grande e maturo il suono elettrico. Rory Gallagher è sempre stato il rovescio proletario e guascone di quel gran signore compassato che è Eric Clapton. Di lui scrivevano sui muri di Londra “Clapton è dio” (un dio che aveva approfittato della manina in aiuto di san J.J. Cale, a un certo punto: ascoltare per credere) , di Rory Gallagher da Ballyshannon, Irlanda, avrebbero potuto scrivere sui muri che era un bravo diavolo un po’ troppo amico del whisky e del blues, poco elegante con quelle camiciacce a quadri da Creedence Clearwater Revival fuori tempo massimo, con una Fender Sunburst che sembrava tenuta assieme dalla colla e dallo stucco, e un po’ troppo sudato alla fine dei concerti. Oggi è tempo di riprendere in mano il cold case, visto che il fratello sta finalmente aprendo gli archivi, e di dirla chiara e tonda: Rory Gallagher, volato via nella “purple haze” nel 1995 è stato uno dei più grandi chitarristi della storia. Non solo del rock. Parola anche di uno che di chitarre se ne intendeva, il Signor Jimi Hendrix, intervistato a proposito. Uno che ogni volta che è salito su un palco, e lui c’è salito spesso e volentieri, ha suonato come se fosse l’ultima volta. Forte, tanto, e con n cuore e una passione che fanno spesso dimenticare il livello tecnico mostruoso dissimulato in quella gran fiammata di suoni. Ricordarlo fa bene all’anima. Riascoltarlo dal vivo nel ’77 in questo disco che coglie il meglio di una serie di concerti inglesi lascia stupiti e grati. (Guido Festinese)