Può un disco essere contemporaneamente la fiera della citazione, e piacevole dall’inizio alla fine? Di questi tempi senz’altro. E il miglior candidato all’orizzonte (non da oggi) è senz’altro Kyle Craft, alla terza uscita con questo titolo, che è anche il nome della notevole band che lo accompagna. C’è una bella definizione che gira, e descrive la musica del songwriter della Louisiana come “un juke box di un bar delle zone paludose caricato a glam rock inglese e southern rock degli anni ’70”. Qualcun altro aggiunge, a ragione, certi strascichi vocali dylaniani e bowiani, soprattutto, un gusto per il “gancio melodico” irresistibile che arriva dai dischi di quarant’anni fa di Elton John, l’ascolto compulsivo degli Stones che furono, assortita piccola pasticceria pop di marca beatlesiana e Beach Boys. Mettiamoci anche una punta dei dimenticati Silverhead, e ci siamo quasi. Il ragazzo ha memoria d’elefante, e talento mimetico impressionante. Se poi volete il disco ideale per fare uno scherzo all'amico bowiano, fingendo di aver trovato degli inediti del ’69, ecco il piatto servito. (Guido Festinese)
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