A volte bisogna saper accettare i paradossi, perché fanno parte del fiume della vita. Anzi, e per entrare in tema, del “fiume infinito” della vita. Molti, moltissimi floydiani doc sono abituati a remare nel fiume infinito dei paradossi. Ad esempio che i Pink Floyd in realtà siano finiti nel 1983, con quel “taglio finale” che siglava assieme l'impossibilità di convivere di Waters e Gilmour, e rimarcava anche, con mesta ferocia, “Il Requiem per il Sogno del dopoguerra”, la dissoluzione di un sogno collettivo nel mondo di squali col tailleur o incravattati con la faccia della vampira Thatcher. I Pink Floyd dell'era Gilmour proposero due deboli dischi che sembravano l'involucro vuoto dei Pink Floyd. Waters si rifugiò nella sua testa piena di idee floydiane, ma senza avere le braccia adatte a metterle in pratica. Poi, nel 2014, si attua il paradosso. Un disco costruito sulla provvisorietà più transeunte, le session con gli ultimi aggraziati tocchi di Wright su una tastiera, tanti anni fa, diventano, smontate e rimontate, integrate e sezionate, un disco dei Pink Floyd. Che non suonerà mai dal vivo.
Che mette la parola “fine”, perché è uno scrigno di segreti ricapitolati dove Skins si riaddentra nel “cuore del sole”, perché la “quieta disperazione” di Dark Side e Wish You Were Here è lì, appena nascosta nei drappeggi di note, perché Autumn '68 è una scheggia di passato remoto di Wright all'organo che forse invece arriva dal futuro. A volte sembra quasi di sentire pulsare anche il basso rotondo e inquieto di Waters. Ma non è così, questa è solo la fine, amici, diceva Jim Morrison. E la fine tutto contiene, nel fiume infinito. (Guido Festinese)