BILL CALLAHAN – Apocalypse
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Come qualcuno ha scritto sul web, la voce di Bill Callahan sembra quella di un Nick Drake polveroso e, aggiungiamo noi, detritico; ed in effetti è proprio così, salvo poi specificare doverosamente che il solitario songwriter di Austin (Texas) è prima di tutto un nobile depositario dell’intera cultura della canzone americana. Il suo è un alternative-country (ormai potremmo definirlo post-moderno più che alternativo) dalle sfumature tex-mex che immediatemente richiama la lezione di grandi maestri come Leonard Cohen (quello di “The Stranger Song” per capirsi), ma in generale riporta alla mente tutta quella letteratura in musica sulle possibilità e le tribolazioni offerte dal grande spazio americano, oltre che ovviamente le moderne rivisitazioni del genere: da Will Oldham a Robert Fischer della ormai leggendaria Willard Grant Conspiracy. In questo terzo disco a proprio nome, l’ex Smog, lo pseudonimo che aveva fino a poco tempo fa, con cui è diventato un esponente simbolo del lo-fi (la registrazione a bassa fedeltà), conduce l’ascoltatore negli sterminati orizzonti del suo Texas attraverso un canto, quasi un talking, sussurato, salmodiante e dolente. Non siamo, però, nel terrificante Texas dell’implacabile scriba Cormack McCarty, luogo geografico e antropologico, i cui drammi hanno ormai assunto sembianze quasi mitologiche, con il Messico e i suoi tormenti a poche miglia di distanza; qui siamo in territori dell’anima, l’apocalisse da cui scampare, la tempesta dalla quale trovare rifugio, è tutta intima, interiore, a partire dal dipinto quasi impressionista di Paul Ryan in copertina, i cui tenui colori ad olio ritraggono il Mule Ears Peak nel texano Parco Nazionale del Big Bend. Non mancano naturalmente echi dylaniani, per l’irrequietezza del personaggio, e, ascoltando questo “Apocalypse”, un ricordo non può non andare anche al Neil Young di “On The Beach”, per la lugubre rassegnazione che sembra dominare l’intero percorso sonoro, e per il calibrato intreccio tra strumenti acustici ed elettrici, chitarre soprattutto. E in effetti, a parte gli sporadici interventi del flauto di Luke Franco e del fiddle di Gordon Butler, che immettono nel quadro sonico complessivo scampoli di leggerezza e bucolicità, a farla da padrone è la cupezza di Callahan, la sua inquieta, inesausta e insoddisfatta ricerca di una definitiva requie. Tutto comprensibile e sul piano musicale molto piacevole e interessante, ma il limite è quello di un eccessivo autoreferenziale compiangimento: sarà che Joanna è andata via. Da ascoltare comunque, magari d’estate in un tardo e assolato pomeriggio. Marco Maiocco
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