Capita spesso, ai grandi musicisti che portano un grande nome: da loro ci si attende molto, e loro quindi reagiscono diversificando campi d'azione e sortite, una sorta di inconscia rincorsa a cogliere le opportunità più diverse e dunque spiazzanti, pur di non rimanere chiusi in un'unica definizione. Che oltretutto obbligherebbe alla replica continua. Filippo Gambetta porta un cognome pesante, ma è anche un musicista compiuto che in questo momento coglie i frutti di una radiosa maturità declinata su sponde diverse, a volte complementari, a volte no: dalle note dello choro, la più negletta e palpitante palestra pirotecnica di un Brasile troppo spesso ridotto a tropicalismo e samba, alle incalzanti avventure gaeliche, al canzoniere della memoria racchiuso nella sigla Liguriani, e via citando. Sta di fatto che Otto Baffi, quarto lavoro in studio a suo nome è il lavoro più riuscito e meditato che Filippo abbia sino ad oggi fatto uscire: epitome in dodici stazioni di pentagrammi per la danza di composizione (e che composizioni!) che vivono di meditati ascolti da tutto il folk revival progressivo che ha interessato l'Europa (e oltre) nell'ultimo quarantennio. Con attacchi perentori, una facilità di suono emozionante, una leggerezza affollettata sull'otto bassi - che poi sarebbero in titolo le esse soppiantate alle “f” del fortissimo in notazione - che scongiura ogni accento retrivo. E guarda avanti. Ventidue musicisti ospiti: troppi? Troppo pochi, forse, a giudicare dagli esiti. Ascoltare per credere. (Guido Festinese)