Quando ci si accorge che un disco è un grande disco? Senz’altro la messa a fuoco non è precisa al primo ascolto, si viene sopraffatti da una montagna di informazioni e riferimenti che non lasciano la mente sgombra. Però procedendo nell’ascolto ci si appunta mentalmente una traccia, magari la terza o quarta, ed in genere funziona che, se arrivati alla fine, avete voglia di iniziare di nuovo vuol dire che il disco o è spiazzante, o è sorprendente, o tutte e due le cose. Succede con questo magnifico nuovo disco di studio di Avishai Cohen, il trombettista, non il bassista omonimo, si intende. In formazione una chitarra elettrica molto più vicina nelle timbriche ai Radiohead o ai Pineapple Thief che al jazz, basso, batteria, altra batteria, e generose dosi da parte di quasi tutti di sampling e elettronica.
Cohen scrive brani dalle arcate melodiche semplicemente sontuose, svettanti al primo ascolto: e se deve usare una scansione rock per dare urgenza nervosa a un brano ( qui ad esempio King Kutner) lo fa, punto e basta. Se deve citare Beethoven e i Massive Attack nell’arco di dieci minuti, lo fa. L’impressione, molte volte, è che se ci fosse la voce straziata di Thom Yorke al posto della tromba questo potrebbe essere un disco di nobile indie – alt rock. Invece è un nobile disco di jazz contemporaneo. Non un pezzo di modernariato per snob col cervello a compartimenti stagni. (Guido Festinese)