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Lo scorso 26 giugno David Brooks, una delle prestigiose firme del New York Times, ha pubblicato un articolo – ripreso da Repubblica in prima pagina il 10 luglio – in cui partendo dalla recente tappa spagnola di Springsteen a Madrid, ha inanellato una serie di sciocchezze, probabilmente senza precedenti. Il tono è quello consueto dell'intellettuale americano in visita nel vecchio continente, un misto di fascino ammirato e distaccato stupore, per un popolo (in questo caso quello iberico) misterioso e pittoresco quanto i Dogon del Mali, almeno a vederlo da una terrazza di Manhattan con vista su Central Park. Dopo un iniziale spiegazione sul motivo del viaggio ("dicono che non puoi dire di aver visto veramente un concerto di Bruce Springsteen se non l'hai visto suonare in Europa"), ecco l'attenta analisi del pubblico: "I fan di Springsteen negli Stati Uniti ormai sono gente vicina alla pensione (o in pensione già da parecchio), in Europa il pubblico è molto più giovane. brooks_davidLa passione dei seguaci del Boss in America è sfrenata, ai limiti del culto. L'intensità degli spettatori nel vecchio continente è due volte di più, con un profluvio di rumore e movimento che a volte mette in ombra quello che sta succedendo sul palco". Ma l'acuto osservatore riesce a cogliere, in mezzo al fragore generale che oscura addirittura la band del Boss, "il momento più strano...a metà concerto, quando ho guardato lo stadio di calcio e ho visto 56.000 spagnoli rapiti, che agitavano con fervore i pugni in aria all'unisono e urlavano a perdifiato: «I was born in the U.S.A.! I was born in the U.S.A.!»." Al fine studioso non sfugge la contraddizione: "Chissà se in quel momento stavano pensando che in realtà non erano born in the U.S.A.". Per giustificare la geniale intuizione (che getta uno sguardo inquietante sia sul livello intellettuale di 56.000 spagnoli, sia sul successo di "O Sole mio" negli States: lo sapranno quei maledetti yankees che quello è il nostro sole di Napoli?) ecco giungere in soccorso i "paracosmi", mondi paralleli che da bambini ci inventiamo, ricchi di dettagli, eroi e leggi immaginarie, che ci aiutano a comprendere la vastità del mondo. Springsteen avrebbe infatti costruito un paracosmo "con la sua collezione di vagabondi, fabbriche che chiudono, tormentate connotazioni cattoliche e momenti di sfrenata perdizione" in cui i balubba di mezzo mondo si riconoscono urlando a squarciagola, evidentemente bisognosi di regredire fino all'infanzia per sopportare le difficoltà della vita; a Brooks, ma non facciamogliene una colpa, non sfiora nemmeno l'idea che le fabbriche chiudono ovunque, creando a volte vagabondi, a volte una sfrenata perdizione che, fortunatamente, la terribile Inquisizione reprime senza pietà. Dopo aver sistemato la parte antropologica, ecco affacciarsi nel poliedrico Brooks l'anima del critico musicale: "forse è per questo che rockband più giovani non riescono a riempire gli stadi con continuità, mentre gruppi più anziani e geograficamente più definiti come gli U2, Springsteen e i Beach Boys, ci riescono". Certo, dev'essere proprio per questo; non perché nel frattempo è cambiata la funzione sociale della musica, i fruitori, la fruizione e anche un po' questo pianeta dove ci dibattiamo (e i gruppi giovani, come i Coldplay peraltro, gli stadi li riempiono comunque). Infine, la ricetta per politici e imprenditori per salvare il mondo: "non cercate di essere l'uomo della strada. Non fingete di essere parte di qualunque comunità visitiate. Non cercate di essere cittadini di una comunità globalizzata. Scendete più in profondità nella vostra tradizione. Ricorrete di più alla geografia del vostro passato. Siate diversi e credibili. La gente accorrerà". Un pensiero così profondo e articolato, che nemmeno mio zio Lino ai compagni dell'ex sezione Turati PSI di Genova-Marassi avrebbe saputo spiegare meglio.

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