Jethro Tull o Ian Anderson, sottigliezze nominali e nulla più. In un panorama dove la senilità dei musici si trasforma in mollezze alla pizzaiola, spacciate sovente per capolavori riflessivi mentre, in realtà, spesso trattasi di spaventosa latitanza di idee o cateterismo acuto, Anderson se ne torna con un concept di altissimo livello che può tranquillamente assestarsi tra i migliori capo/lavori classici della casa madre JT. Vuoi perché con sta roba ci si è cresciuti, vuoi perché l'affacciarsi di nuovi talenti,veri e non reality-derivati, è sempre più sparuto, celebro le glorie di "Homo Erraticus" e confesso subito che, dopo averlo adocchiato, la spinta all'ascolto è stata più per curiosità che per vero amore.
Diciamo quindi che la grammatica Jethro Tull è tutta perfettamente declinata nell'arco dell'intera opera: immancabile il flauto trademark, immutato il birignao espositivo di Anderson, risulta impossibile resistere alle seduzioni prog rock folk blues, finanche, metal, in un calderone che tanto sa di campagna inglese dopo una tenue pioggia. Inutile evidenziare un pezzo rispetto ad un altro, la coesione del racconto non lo necessita. Comunque a fronte dei suoi 67 anni Ian Anderson si assicura un aumento di pensione ben meritato. (Marcello Valeri)