Cosa vi aspettereste da un vecchio zio di settantaquattro anni che andate a trovare una domenica pomeriggio nella sua casa di mattoni di Brooklyn? Oltre a bibite e dolcetti anche una buona dose di storie e ricordi; e se lo zio fosse un musicista, canzoni. In realtà, nel caso aveste la fortuna di essere il nipote di Garland Jeffreys, il problema sarebbe trovarlo a casa, visto che il giovanotto sta per iniziare un lungo tour che lo porterà anche in Italia, il 25 giugno, a Vicenza. E allora immaginiamo che abbia affidato a questo quindicesimo disco i suoi racconti: l’infanzia con il padre che si recava ad Harlem per lavorare (la canzone che dà il tiolo all’album), un’adolescenza (”Schoolyard Blues”) complicata dalla sua identità multirazziale (newyorchese, ma di origine portoricana, troppo scuro per i bianchi, tropo chiaro per i neri: “Colored Boy Said”), l’amore per sua moglie (”Venus”) e il tempo che se ne va (“Time Goes Away”) con sua figlia (o vostra cugina) Savannah alla voce a al pianoforte. Il ragazzo poi ha sempre goduto di buone frequentazioni (e di ottima fama): ad esempio l’amicizia ai tempi del college con Lou Reed, ricordato con la cover di “Waiting for the Man” e dallo struggente violino di Laurie Anderson in “Luna Park Love Theme” (che a New York è sinonimo di Coney Island, baby).
O l’incontro con John Lennon celebrato da una versione ‘slow and slide’ di “Help”, canzone il cui primo verso è il malinconico “When I was younger so much younger than today”: si sa i vecchi zii sono nostalgici, ma non si smetterebbe mai di ascoltare i loro racconti. (Danilo Di Termini)