È strano Will Stratton e anche un po’ astratto. Giochi di parole banali per dire che questo suo quarto album risulta all’inizio abbastanza difficile da afferrare (anche se molti lo hanno trovato subito adorabile). Occorre in effetti qualche ascolto per entrare in territori che sono al tempo stesso suggestivi ma remoti, per farsi prendere da melodie carezzevoli ma sfuggenti. Se i riferimenti più citati sono Sufjan Stevens e Nick Drake, l’approccio pare accostabile soprattutto al John Fahey di fine anni ’60: un flusso suadente e destabilizzante, lì espresso in forma di lunghe trame chitarristiche, qui suddiviso in canzoni per voce, chitarra e archi. Suona tutto un po’ intellettuale, ma quando ci si comincia ad affezionare a pezzi come Honey Diamond e The Relatively Fair il discorso si fa assai più coinvolgente. (Antonio Vivaldi)