Ci sono linee familiari, alberi genealogici ed eredità pesanti da portare avanti. Uno che, dopo le impronte digitali sulle cover dei dischi, ha quasi cancellato il suo passato è Tim Green. Dai tempi di Washington dove era chitarrista per i Nation Of Ulysses, uno dei più grandi e intelligenti gruppi rock dai tempi degli MC5, è passato a muoversi quasi di nascosto dietro ai banchi di missaggio di San Francisco come produttore e ingegnere del suono (dalle Sleater Kinney ai From Monument To Masses, passando per Trans AM e Joanna Newsom). Alla fin fine, nell'ultimo decennio, ce lo si ricorda più che altro per le chitarre pesantemente armonizzate, marchio di fabbrica, che ha dispensato a più riprese con i geniali Fucking Champs, sorta di combo-burla che mimava le dinamiche più involontariamente comiche dell'era aurea del metal più epico.
Le stesse chitarre vengono dosate sapientemente anche in questo nuovo episodio dei Citay dove si si trova a condividere gli oneri con l'Ezra Feinberg, anche lui personaggio dal passato più che onorevole, dei Piano Magic, cui spettano, in realtà, gli oneri in fase compositiva e gli onori per la particolare buona riuscita delle canzoni. Il disco è un riuscitissimo e sofisticato melange di brani dalle tinte sixties, tra i Turtles e i Ladybug Transistor, arrangiate e suonate da una band ricca di individualismi che potrebbe far breccia sia nei cuori degli amanti del pop che di quelli del prog più contaminato e meno autoindulgente. Detto della firma di Green, vergata mediante assolazzi sui pezzi, si incontrano qui tanti bei suoni di grande qualità, dosati con gusto all'interno degli oltre quaranta minuti divisi in otto brani tra cui spicca, come ciliegina posta in conclusione una, a dir poco, magica cover di Tugboat dei Galaxie 500. Il disco è rinfrescante, nella totalità del suo svolgersi, per come si pone nei confronti dei propri riferimenti diretti: il passaggio a cavallo tra il pop dei sessanta e il prog dei settanta, riletto in chiave shoegaze tardi ottanta. Uno di quei casi, a dir il vero rari, in cui anche il più muffoso degli ascoltatori dotato di orecchie solo per la cartapecora precedente al 1976 potrebbe trovare più che un conforto e un po' di speranza nelle nuove generazioni. (Matteo Casari)