Ogni volta che esce un disco a nome Fred Anderson o Hamid Drake, è una benedizione per chi a cuore le sorti di un jazz troppo spesso ridotto a maniera ed esercizio calligrafico. Non che manchino storia e riferimenti, nell’opera del sassofonista e del percussionista: tutt’altro. Ma è “storia” decantata con la sapienza scaltrita di Chicago, mai revival, mai citazione fine a se stessa, desiderio di rassicurare chi nel jazz cerca un’immagine pacificata e revivalistica. Il fatto poi che dietro bottoni e cursori ci sia John McEntire, l’uomo simbolo del più inquieto post rock è ulteriore benedizione. Cinque lunghe o lunghissime tracce che hanno l’eloquenza di Rollins, il furor di Coltrane, il gusto del blues e delle note “etniche” (vedi i magnifici interventi al liuto basso guimbri degli Gnawa d’Africa di Josh Abrams, mai decorativi), senza per questo chiamare in causa regressive ragioni di “folclore”, o world music di plastica per tutti i palati. (Guido Festinese)
{mos_sb_discuss:11}
Recensione Utenti
Nessuna opinione inserita ancora. Scrivi tu la prima!