Icona dell’avanguardia radicale, nemica di qualunque ipotesi consolatoria dell’arte, più vicina alla performance teatrale che alla semplice esibizione musicale, Diamanda Galás da San Diego, da qualche anno a questa parte ha ritenuto di dover rendere più ‘accessibile’ le sue proposte. Le infernali e superbe prestazioni vocali che incrociavano i temi politicamente e socialmente rilevanti dei primi dischi, hanno lasciato il posto a opere - “Malediction & Prayer”, “La Serpenta Canta”, “Defixiones”, “Will And Testament” - composte quasi unicamente da cover di classici del rock, del blues e del jazz. A nove anni dall’ultimo della serie, “Guilty Guilty Guilty”, la performer di San Diego torna contemporaneamente con due dischi, uno dei quali, “All the Way”, prosegue in questa direzione fin dal titolo, tratto da uno standard reso celebre da Frank Sinatra nel film “Il Jolly Impazzito” (Oscar 1957 per la miglior canzone originale a Jimmy Van Heusen e Sammy Cahn). Tanto la versione di the Voice era carica di promesse e rasserenante (e la rilettura di Bob Dylan in “Fallen Angels” nostalgica come può esserlo solo un valzer country), così quella della Galás suona come un horror notturno e solitario, tra echi elettronici e urla sguaiate, in cui l’amore non sembra più essere un sentimento rassicurante, ma si costituisce piuttosto come un rapporto di potere (e inevitabilmente dolore). È questo il mood che caratterizza anche “You Don't Know What Love Is” e “The Thrill Is Gone”, mentre la monkiana “Round Midnight” è eseguita in versione strumentale al pianoforte. Gli ultimi due brani, “O Death” e “Pardon Me I’ve Got Someone to Kill” provengono dal repertorio country e subiscono lo stesso trattamento, squartati, ridotti a brandelli e abbandonati senza voltarsi indietro. “So, if you'll let me love you, It's for sure I'm gonna love you all the way, all the way“. (Danilo Di Termini)