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“Wrecking Ball” è stato giustamente definito il disco “più arrabbiato” di Springsteen. E diversamente non potrebbe essere, a partire proprio dal titolo: la palla di demolizione usata nei cantieri. Un brano - questa “title-track” - scritto e pensato per celebrare le glorie del “Giants Stadium”, prima del suo abbattimento. Testo potente, che diventa la metafora dell’America - e un po’ del mondo - di oggi: la finanza basata su numeri, il sistema che implode, e quella palla da demolizione che spazza via tutto ma rappresenta anche la speranza della ricostruzione e di un domani migliore. All’insegna del “We Take Care Of Your Own”, ci pensiamo noi, il titolo della prima traccia, la più rock e orecchiabile - non a caso scelta come singolo di lancio - tra le undici (tredici nell’edizione deluxe). Musicalmente, va rilevato come il nuovo produttore Ron Aniello abbia fatto un lavoro magistrale, arrivando a ottenere il disco più folk della carriera di Springsteen. Uno che a 64 anni suonati ha ancora voglia di ripartire da zero. In questo caso, con un disco che rasenta da vicino il “We Shall Overcome” suonato con la Seeger Session Band e le cover dell’ultranovantenne Bob Seeger. Non a caso, parecchi musicisti di “Wrecking Ball” provengono da quella formazione, mentre la E-Street è rappresentata dai soli Max Weinberg e Soozie Tyrell, se si escludono l’ormai ambivalente Charlie Giordano e la moglie del Boss, Patti Scialfa. Però, lo spettro della “più grande macchina rock vivente” è sempre lì. Nella splendida foto finale del booklet, che inquadra il Boss e Clarence Clemons di schiena, davanti a una marea di persone. Trent’anni fa, in “Born To Run”, si vedevano le loro facce: il Boss appoggiato a Big Man. Avevano una vita davanti. Ora, la morte dell’amico di sempre e le schiene. Ma non è ancora partita chiusa. E Springsteen stesso affida questo pensiero a un messaggio finale: «Clarence non è morto. Morirà quando noi stessi moriremo».
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