Lo dico subito, io agli Arctic Monkeys sono arrivato da poco...Praticamente, prima di Tranquillity Base, pur sapendo chi fossero ed avendoli sporadicamente ascoltati, non sono mai stato in grado di considerarli poco più che una giovine band con tante idee ma not my cup of tea. La band, a mio modestissimo parere, rientra in quella categoria di gruppi che, ad un certo punto della loro carriera, compiono una inversione ad U e cambiano radicalmente direzione, spiazzando vecchi (oddio, non così vecchi(fans) ed acquisendone di nuovi, mi vengono in mente, su tutti, gli Arcade Fire che, nonostante abbiano quest'anno rilasciato un growner enorme come We, ancora faticano ad ritrovare la fiducia dei primi seguaci. Con l'album precedente gli Arctic avevano tracciato una linea di demarcazione importante che viene perseguita anche in questo, a 4 anni di distanza, nuovo lavoro, The Car , album che tanti probabilmente aspettavano al varco per verificare se si fosse trattato di episodio unico o di nuovo corso.
Il disco conferma invece pienamente che il nuovo corso è nel solco della precedente emissione e quindi si ritrovano le atmosfere lounge e plastic soul che tanto mi ammaliarono, per cui posso tranquillamente e pure basicamente dichiararmi soddisfatto. L'apertura si affida alla, da qualche tempo nota, There'd better be a mirrobal che ha avuto funzione sia di conferma che di trait d'union con il passato recente e prosegue con un gioiellino velatamente funkeggiante e molto da giovani americani, I Ain't Quite Where I Think I Am. Sculputers Of Anything Goes ha un cupo incedere marziale molto soffuso, potrebbe essere se cantata da Iggy, una outtake di The Idiot, mentre Jet Skis On The Moat è ballata piegonissima, mi piace pensare che una nuova concezione di ambient soul si affaccia tra una contemporaneità di musiche che ci circondano nell'etere ridondanti e stradaiole, autotunate ma senza alcuna patente per le mie direzioni. Body Paint è una calda moffola per orecchie raffreddate, con qualche riferimento al Transformer di Lou Reed nell'incedere pianistico, un lavoro di archi che piacerebbe a George Martin ne modifica la direzione, la title track, The Car, arriva con un incipit morriconiano soffuso e spiana, a metà album, qualsiasi possibile dubbio sul fatto di trovarsi di fronte ad un gran bel disco. C'è in questo lavoro una enorme strategia di sottrazione, il celebre less is better, che affascina e avvolge, Alex Turner ha ormai raggiunto la sua perfezione dividendosi tra crooning e reminiscenze tra il bowiano e il meglio del soul che fu. (Marcello Valeri)
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