È diventato quasi un format: l’anziano cantante country (o blues o soul) che si presenta con un disco fragile, uscendo dall’irrilevanza (che acchiappa tutti, presto o tardi) con un colpo di coda. L’esempio principe è Johnny Cash (che ha sputato in faccia al tramonto con i migliori dischi della sua carriera) ma la lista è lunga (Solomon Burke, per dire). Si allunga ancora un po’ con John Prine che più giovane (classe 1946) interrompe un silenzio ultradecennale con un album d’inediti luminoso (e sorprendente): parole chirurgiche, collaboratori vari che non turbano l’insieme, voce in minore e melodie squisite, country per la vivacità e folk per la malinconia, come si conviene. Fin dalla confusa faccia in copertina, questo è un disco che non nasconde le trappole (del tempo che passa) e, anzi, le mette in scacco con poche mosse (da maestro). (Marco Sideri)