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Rock Recensioni NATHAN BOWLES - Whole & Cloven
 

NATHAN BOWLES - Whole & Cloven NATHAN BOWLES - Whole & Cloven Hot

NATHAN BOWLES - Whole & Cloven

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Titolo
Whole & Cloven
Anno
Casa discografica

Nathan Bowles è un coraggioso polistrumentista della Virginia (oggi residente in North Carolina), appassionato di percussioni, ma soprattutto virtuoso banjoista ipnotico e sperimentale, tra gli odierni innovatori della profonda tradizione appalachiana (rimandiamo alle sue collaborazioni con Steve Gunn e al suo capolavoro "Nansemond"), letteralmente capace di tradurre in suoni i segni e le suggestioni del paesaggio, quasi restituendolo al suo inconsapevole stato primitivo, svincolato da uno sguardo culturale o dalle trasformazioni dell'agire umano. Un musicista "primitivo", insomma, sprofondato in un'arcaica e ancestrale old time music intrisa di tutto il suo composito humus di elementi, e al contempo decisamente aperto al rischio e all'innovazione. La tradizione in Bowles non risiede tanto nell'aggiornata formulaicità quanto nella ritualità del gesto, nell'appassionata ricerca sonora, nella rievocazione fantasmatica, nel costante richiamo alla terra custodito nelle corde del suo banjo; per il resto (quando la composizione non prende il sopravvento) spazio a improvvisazioni, a ricorsive digressioni sonore, ossessive iterazioni variate, sospesi mantra acustici, esoterici passaggi minimali (e qui, in questo senso, il capolavoro è rappresentato dai quasi undici minuti di "I Miss My Dog"). La stilizzata copertina di "Whole & Cloven" sa tanto di richiamo esplicito a questa radicalità atavica (quasi sciamanica) proiettata nella contemplazione dell'infinito: in primo piano un dipinto di John Henry Tooney, artista afroamericano originario dell'Alabama, che rimanda a preistoriche pitture rupestri come rielaborate (però) dai tratti semplici e consapevolmente retrospettivi di certa avanguardia novecentesca. "Whole & Cloven", terzo disco solista di Bowles, è come di consueto un album prevalentemente strumentale, con la sola eccezione di "Moonshine Is The Sunshine", cover di un misconosciuto brano di Jeffrey Cain del 1972. Sette episodi che (lo abbiamo detto) mettono in stretta correlazione il profondo substrato rurale della cosiddetta tradizione appalachiana, l'old time folk americano, la mountain music più inquieta e misteriosa, con soluzioni strumentali decisamente moderne e avanguardistiche. Diversamente da quel che accade in "Nansemond", qui Bowles sembra parlare più di sé che descrivere e raccontare l'ambiente circostante. Le sue questa volta sembrano meditazioni personali sui temi dell'assenza e dell'abbandono. D'altronde Bowles ha dichiarato di essersi sentito più sciolto e pronto alla confidenza nella realizzazione di questo lavoro, tanto da essere addirittura riuscito (in alcuni momenti) a separarsi dal rassicurante alter ego banjo, magari per usare un pianoforte (nella singolare e inattesa "Chiaroscuro") e denunciare così il suo debito anche nei confronti della musica classica. L'opera di Bowles (lui che potrebbe passare da un successo bluegrass all'altro) appare come un sincero invito alla meditazione, alla ricerca interiore, prim'ancora che musicale. Un esempio di coerenza e serietà (non per questo poco spassoso), nel quale le ragioni della tecnica sono in perfetta sintonia ed equilibrio con quelle dell'espressività. (Marco Maiocco)

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