Quando nel 2009 gli Skunk Anansie si sono riuniti, non tutti erano convinti della loro genuinità. Poi è arrivato un greatest hits – un’operazione commerciale? - che conteneva alcune perle promettenti. Wonderlustre aveva segnato il ritorno ufficiale, con una carrellata di produzioni eccellenti e una scaletta bella ma senza troppe sorprese. Il nuovo capitolo, Black Traffic, che vede al mixer il guru alternativo Chris Sheldon, è il primo a uscire per un’etichetta indipendente e questa scelta ha consentito di muoversi in territori più sperimentali esprimendosi in totale libertà, anche se si ha la sensazione che alcuni cliché strutturali siano rimasti. Non ci si deve quindi aspettare una svolta radicale: Skin riannoda i fili di un discorso iniziato negli anni Novanta, riprendendo sia la grinta rock e la vena malinconica di Post-orgasmic Chill (Diving down) Anche i brani più anti-convenzionali trovano una collocazione logica nella storia della nostra Deborah Anne Dyer – a metà tra Grace Jones e Patti Smith – e se la collaborazione con gli Shaka Ponk (Spit you out) rimanda al duetto con Maxim dei Prodigy, i momenti d’atmosfera ricordano la sua parentesi solista. Sin dal titolo – riferito alla situazione sociale che stiamo vivendo – non manca nemmeno l’impegno politico che ha sempre caratterizzato i lavori del gruppo inglese. Ma rispetto al passato c’è una differenza, ed è una differenza sostanziale: questo disco sembra sicuramente “più democratico”, nel senso che, dove prima c’era spazio solo per una bellissima voce – qui evidenziata con ironia (Stinky finger in your honey) –, adesso risaltano anche linee ritmiche marcate e assolo di basso che mettono in luce le capacità di un Cass particolarmente ispirato, completamente padrone del suono degli effetti. Si tratta insomma di un album dall’inconfondibile marchio “Skunk Anansie” che farà saltare e pensare. (Elena Colombo)