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Al contrario, lui fa coscientemente a brandelli l’aura mitologica che, volente o nolente, lo circonda e sembra che questo lo diverta molto. Con la voce profonda e ruvida come il punto più oscuro di una caverna, l’espressione beffarda e un talento incommensurabile, Dylan si impadronisce di vari decenni di storia della musica americana e li reinventa da par suo. Dopo aver rinunciato alla collaborazione quanto mai positiva ma fortemente condizionante di Daniel Lanois, Dylan si affida ad un produttore dotato di maggiore discrezione, Jack Frost, e a un gruppo di eccellenti musicisti, tra cui il grande tastierista texano Augie Mayers, i chitarristi Larry Campbell e Charlie Sexton e l’ottima sezione ritmica formata da Tony Garnier e David Kemper. Con questi compagni di strada, Bob Dylan intraprende un viaggio sonoro e culturale che parte dall’old time music, imbocca i sentieri del blues, del ragtime, delle sonorità care ai fratelli Gershwin. Certo non mancano in questo lavoro impossibile da catalogare e troppo sorprendente per essere definito bello, alcune ballate ”alla Dylan” come Mississippi, già incisa da Sheryl Crow, e Sugar Baby, una canzone talmente intensa e appassionata da catturare fin dal primo ascolto. Eppure, quando scorrono le note di Bye and Bye (ma non ricorda Blue Moon?) o del bell’omaggio a Charley Patton High Water ci si rende conto che Bob Dylan, così indifferente al proprio personaggio, così avulso dalle pressioni esterne, sa mostrare un assoluto rispetto per chi ama la sua musica. Anche quando, come in Love And Theft, gioca a scappare da se stesso e a rincorrere, per una volta, i suoi miti. Quelli che hanno trasformato un piccolo studente del Minnesota di nome Robert Zimmerman in una leggenda moderna di nome Bob Dylan. (Ida Tiberio)