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Rock Recensioni BELLOWHEAD – Burlesque (Westpark 2006)
 

BELLOWHEAD – Burlesque (Westpark 2006) Hot

ImageCominciamo a dire un cosa semplice ma purtroppo mai scontata come dovrebbe essere. Non esiste jazz senza blues, non esiste rock senza blues, rhythm & blues e jazz. Come dire che senza Robert Johnson e Charlie Christian non avremmo avuto un Jimi Hendrix o che in mancanza di un T-Bone Walker e un B.B. King staremmo ancora aspettando un David Gilmour o ancora che prima di Mick Jagger e Keith Richards sono esistiti i Chuck Berry, i Little Richard e i Bo Diddley: l’elenco potrebbe andare avanti a lungo, portando innumerevoli esempi su e giù per la scala del tempo che ha scandito i percorsi affascinanti della musica popular. Quando Dave Swarbrick e Richard Thompson confezionavano per l’indimenticabile voce di Sandy Denny ballate epocali come Crazy Man Michael erano ben consci di tutto questo. L’intento era quello di unire alle estetiche del rock e del blues la tradizione del folk inglese per valorizzarla e renderla più viva senza vuoti conservatorismi. È una lezione mutuata dalla storia del jazz, musica il cui DNA ha sempre previsto la costante reinvenzione della tradizione, come da antiche logiche di derivazione africana.

Per capirsi, è un po’ quello che fa Ry Cooder ancora oggi nel suo ultimo gioiello My Name Is Buddy: lui stesso ha detto di scrivere canzoni nuove in una prospettiva antica, ovvero sensibilità nei confronti della propria storia, recupero della memoria e nessuna inutile riproposizione. Per gli amanti delle note nostrane, l’ambito è lo stesso in cui si muove Riccardo Tesi nelle sue peregrinazioni sul crinale che separa l’appennino pistoiese da quello modenese. I Bellowhead, straordinaria formazione acustica inglese, sembrano addirittura andare oltre: un po’ come quando la Dirty Dozen Brass Band improvvisa in jam con i Gov’t Mule. Burlesque, primo e sinora unico album del gruppo, pur affondando saldamente le radici nel folk, raggiunge in realtà un’eccezionale insperata sintesi tra tradizione inglese, jazz, repertorio bandistico, rock, musica da camera, musical, musica da ballo, e quant’altro. Va ricordato che il Burlesque è un tipo di varietà sardonico, istrionico e spesso molto spinto esploso nella seconda metà dell’800 nella propserosa Inghilterra vittoriana. Come nel disco in questione, molti gli elementi in gioco: comicità, satira, danza, teatro, erotismo. Veniva definito The Poor Man’s Follies perché spesso rivolto alla classe sociale meno abbiente e ai cosiddetti bassi istinti del popolino, ma con ogni probabilità un qualche valore artistico fioriva. Come fioriva a New Orleans nei postriboli di Storyville agli albori della storia della musica afro-americana o, per eccedere nei paragoni, come quando Mozart veniva costretto a rappresentare capolavori come Il Flauto Magico o il Don Giovanni nei teatri di terz’ordine. Tornando a bomba, Burlesque è stato definito il più grande album di folk mediato a partire da Liege & Lief dei Fairport Convention datato 1969. Difficile sostenere il contrario, perché Burlesque sembra davvero la definitiva chiusura del cerchio, l’epitome finale, il punto che riannoda tutti gli altri per ricominciare da capo senza barriere e distinzioni di genere. Un po’ come riuscire finalmente a mettere d’accordo il particolare e l’universale. Undici elementi guidati dalla voce di Jon Boden che, come scrive la Felmay, può davvero ricordare quella emozionante del pifferaio magico Ian Anderson. Tredici brani uno più bello dell’altro per lo straordinario impasto sonoro tra ottoni e strumenti tradizionali e la sorprendente, straripante qualità e vivacità degli arrangiamenti. Un album gioioso, epico, scatenato che sembra creare i presupposti per una vera musica del mondo e che in un ipotetico nuovo voyager potrebbe rappresentare nel modo più compiuto la musica del pianeta terra. World Music sì, ma non quella di plastica buona solo per gli scaffali delle grandi catene di distribuzione. (Marco Maiocco)

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