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FABRIZIO DE ANDRÈ: spunti per una riflessione Hot

Image Se scrivere canzoni è una delle possibili forme d’arte, e noi pensiamo che lo sia, Fabrizio De Andrè è stato senz’altro un grande artista, forse insuperabile, almeno in Italia, e al di là di ogni sua illustre derivazione. Una parola fin troppo abusata e utilizzata, ce ne rendiamo conto, ma nel suo caso eternamente ben spesa. Se per poesia intendiamo quella felice intuizione, quella particolare creazione (dal verbo greco “poieo”) capace di meravigliare, emozionare, coinvolgere nel profondo attraverso la suggestione, ingenerata da qualsivoglia fonte (spesso a carattere sinestesico), allora Fabrizio De Andrè è stato anche un grande poeta, forse tra i più innovativi del secolo scorso, e a prescindere dall’uso sapiente che faceva della metafora. Certo, la sua non era poesia tout court, abbisognava di un intimo connubio tra testo e musica, parola e melodia, sintassi e significato; e però, come per ciò che è stato definito e codificato nel tempo come poetico, la “prestidigitazione” faberiana, la capacità di De Andrè di sortire magiche illusioni attraverso l’abile manipolazione di idee e parole, non poteva fare a meno di confrontarsi con il fondamentale concetto di musicalità; una musicalità cercata, scovata e liberata in ogni singolo episodio della sua opera musicale: l’alta canzone e la poesia in fondo non possono che plasmarsi sulla soavità dei suoni e sul bel canto.

Ma Fabrizio De Andrè è stato prima di tutto un coraggioso uomo di pensiero, che ha saputo sviscerare e sviscerarsi, sgranare a poco a poco l’intero rosario delle nostre contraddizioni, interrogarsi a fondo sulle eterne questioni della vita e della morte, immaginare con tenacia e fervida indignazione una società scevra da ingiustizie e discriminazioni. Per descrivere il proprio mondo, il proprio modo di pensare, ragionare, sviluppare argomentazioni e ragionamenti, non ha scritto libri, non è diventato un celebre filosofo, non ha fatto della teoresi la sua ragione d’essere, non ha preteso di insegnare agli altri come vivere, ma attraverso la canzone è diventato un narratore fuori dal comune, un abile cantastorie, la quint’essenza del cantautore, per carisma, intelligenza, compiutezza formale, umanità (nel bene e nel male), profondità ed espressività. L’ultimo trovatore, come recita il titolo di un libro di Roberto Iovino, defintiva espressione del suo tempo e non solo, capace di riflettere e commentare il presente, spesso attraverso il passato, e il futuro, grazie a una stringente e acuta analisi del presente. Oggi, nel pauroso vuoto di idee e valori nel quale siamo immersi (sembra irrimediabilmente), orfani di punti di riferimento, maître à penser, intellettuali che sappiano svincolarsi dai ceppi dell’unico pensiero dominante, o dalle pesanti maglie di anacronstiche ideologie da tempo al disarmo, figure come quella di Fabrizio De Andrè mancano in modo insopportabile. Perché l’educazione alla moderna complessità passa attraverso il nitore del limpido ragionare, ovverosia quella lungimirante e sciamanica capacità di porsi le giuste domande e provare a darsi le adeguate risposte senza paure, tentennamenti e ipocrisie, inseguendo purezza e autenticità. Ma in realtà, nel caso di uno come Fabrizio De Andrè, quel che più conta è tornare al magnetismo catartico delle sue canzoni, alla potente fierezza e dignità della sua musica; ed ecco perché invitiamo tutti a visitare “La mostra” a lui interamente dedicata in visione in questi giorni nelle sale di Palazzo Ducale, ideata dagli artisti di Studio Azzurro e allestita grazie agli sforzi organizzativi della Fondazione per la Cultura di Genova e della Fondazione Fabrizio De Andrè. Un elegante e intimo allestimento in cui il mistero della poetica musicale faberiana viene custodito e restituito con misura, rispetto ed equilibrio, grazie anche al supporto di fatate tecnologie interattive dall’indiscutibile fascino. Un consiglio, il nostro, rivolto soprattutto a coloro che hanno l’amara sensazione che l’immagine di Fabrizio De Andrè sia ormai finita nelle mani del potere e delle sue strumentalizzazioni, anche per l’ambigua tempesta mediatica che in questi giorni ha travolto tutti in occasione del decennale dalla morte. Perché è giusto e necessario rivolgersi altrove, sta nel fisiologico bisogno di rinnovamento, ma è altresì utile conservare memoria degli esempi che ci hanno preceduto. Faber merita di essere scoperto e riscoperto ogni giorno, prescindendo da quel generale principio di articolazione che vuole che i messaggi vengano recepiti e utilizzati in modi differenti a seconda delle epoche, delle generazioni e dei giochi di potere. E speriamo che a questo possano servire le nuove ristampe cartonate di tutti gli episodi discografici della sua nobile e articolata vicenda artistica. (Marco Maiocco)

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