“Desideri, corpo, spazio, sesso, macchine, posti, persone, modi di fruizione e modi di produzione della musica da ballo. Superfici, fashion, alterazione, cyborg, modelli di ruolo, divi e popolino, tempo del lavoro, tempo libero. Notte, giorno, panorami di provincia, luoghi comuni e infra-luoghi”. Ecco riassunto il contenuto di questa “Storia del ballo in Italia 1946-2006”, uno dei pochi testi disponibili sull’argomento, edizione remixata e aggiornata di un libro uscito da Theoria una decina d’anni fa. Nonostante il sottotitolo, non è una semplice storiografia: è qualcosa di meno e contemporaneamente qualcosa di più. Per affrontare l’argomento i due autori scelgono di farsi accompagnare dai compagni più grandi, proprio come si faceva quando si andava per la prima volta in discoteca. Attraverso una serie di interviste ai protagonisti, o presunt(uos)i tali, riviviamo il dopoguerra, con Primo Moroni, esperto di controculture, ma anche campione di charleston e blues figurato; l’avventura del Piper con Gianni Boncompagni che interviene anche per l’omaggio alla discoteca televisiva di “Non è la Rai”; la disco nostrana con Freddy Naggiar della Baby records, quella dell’omino con il sigaro in bocca che invento la compilation mixata e coniugò dance e italianità infliggendoci “Il ballo del Qua Qua”; l’house e la techno melodica con Gianfranco Bortolotti, guru della Media record di Brescia che a cavallo fra ’80 e ‘90 fatturava dieci miliardi di lire. E molti altri, passando per i rave e i centri sociali fino all’ultimo grido della suoneria del telefonino che si fa hit da ballare.
Antonelli (un passato nell’industria discografica, oggi direttore editoriale di Rolling Stones Italia) e De Luca (giornalista e disc-jockey) si addentrano nel buio assordante della sala, ritrovando Mauro Malavasi, l’inventore dei Change, oggi produttore pop per Dalla e Carboni, e indagando le misteriosi sorti di Ryan Paris e Gazebo. Con una tesi di fondo: “la trance del liscio non è tanto distante dall’ecstasy dell’house”; e cioè: esiste una via italiana al ballo, assolutamente originale e in fondo alternativa al modello americano, da cui si differenzia oltre che per i contenuti musicali, per la pressoché totale assenza di istanze sociali: se negli States furono l’orgoglio nero e la coscienza gay la base della “disco revolution” (“burn baby burn” reiteravano con ambiguità sessual-politica i Trammps di “Disco Inferno”), da noi Cecchetto si limitò a spiegare in “Gioca Jouer” la differenza tra cantare e nuotare, e Jovanotti a sognare una grande chiesa da Che Guevara fino a Madre Teresa. Antropologia e sociologia, economia e design, costume e moda, ogni aspetto è indagato; manca solo la voce di quelli che a ballare ci andavano e ci vanno ancora, per rispondere alle solite aspirazioni di sempre: conoscere la ragazza del paese vicino, dimenticare il lavoro fino al lunedì successivo, provare a vivere almeno per una sera “like in a Dolce vita”. Come cantava Ryan Paris appunto. (Danilo Di Termini)