Nel 1971 l’industria discografica americana era assiduamente alla ricerca del ‘nuovo Dylan’, fu anche grazie a questa frenesia e a due sponsor d’eccezione come Kris Kristofferson e Paul Anka(!) che John Prine ottene un contratto presso una major come la Atlantic. Peraltro anche il suo amico e compagno di stage, lo sfortunato Steve Goodman, presente come accompagnatore in questo e altri dischi di Prine, seguì un percorso analogo per pubblicare il suo primo album solista. Risultarono molto convincenti alcune esibizioni in piccoli club, dove i due, talvolta in simbiosi creativa, mostravano le loro capacità in termini di repertorio e di presenza scenica. Il disco d’esordio di Prine mostra una maturità davvero sorprendente, e non è azzardato dire che, nello stesso periodo il maestro, Dylan, produceva canzoni di gran lunga inferiori a buona parte di quelle incluse in questa raccolta dall’allievo. Alcune di queste sono giustamente entrate a far parte dei classici del songwriting americano dei primi anni settanta, basti menzionare ‘Sam Stone’ che condensa in pochi minuti temi quali la guerra nel Vietnam e l’emergente problema della droga, usando come pretesto la triste storia di un reduce e del suo ritorno in patria. Il quadretto familiare di ‘Hello in there’ porta invece alla ribalta il problema degli anziani, la solitudine e l’attesa di una visita che non arriva mai. La cifra stilistica di Prine, oltre ai riferimenti dylaniani di cui sopra, è quella di inserire nei testi una buona dose di ironia, come in ‘Pretty Good’ o in ‘Paradise’, e ha caratterizzato anche il resto della sua lunga carriera fino ai giorni nostri. (Fausto Meirana)