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Happy Trails
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imageE' forse uno squallido panorama del rock attuale che impone una essenziale rivalutazione di gruppi restati troppo a lungo nell'ombra e purtroppo poco noti al grosso pubblico (n.d.r. La recensione non è stata scritta oggi, bensì nel 1973!).
Anno 1968: contemporaneamente a “Live & Dead” dei Grateful e a “Crown Of Creation” dei Jefferson Airplane esce sul mercato discografico americano il capolavoro dei Quicksilver. La formazione è ancora quella originaria con John Cipollina alla solista, Gary Duncan alla ritmica, Gregg Elmore alla batteria e David Freiberg al basso ed al violino elettrici, non essendo ancora entrati Nicky Hopkins e Dino Valenti. Se inquadriamo cronologicamente, alla luce di altre storiche incisioni di quel periodo, l'album in esame, appare senz'altro evidente l'omogeneità e la somiglianza che intercorre, soprattutto per l'organico non certo rivoluzionario, tra i suddetti Quicksilver e diversi gruppi rock inglesi, primi fra tutti i leggendari Cream. Ma tutto ciò non deve trarre in inganno o facilitare la formulazione di infondate congetture: il gruppo californiano, in effetti, è, fra quelli che fiorirono nella lunga estate degli anni '60, il principale portavoce di una corrente musicale particolarmente vicina alle esperienze artistiche d'oltre Manica. Qual'è, comunque, stillata questa doverosa premessa, l'elemento diversificatore, o che, in qualche modo, da il suo contributo a creare atmosfere musicali di differente respiro? Alla base di questa scheletrica costruzione musicale porrei una ritmica dinamicamente orizzontale, un basso dalle pulsazioni cardiache che non manca, spesso e volentieri, di corroborare il drumming di Elmore con interventi pompanti. Tutto ciò, quindi contribuisce all'arricchimento di quel substrato singolarmente fecondo, che è il vero e proprio campo d'azione su cui può operare l'istinto vivisezionatore della lancinante solista di Cipollina, strumentista lucido e senza sbavature come pochi altri.

E' su queste caratteristiche essenziali che si articola il lungo pezzo della prima facciata, un vecchio rock di Bo Diddley; nell'incessante plafond ritmico che sigla dall'inizio alla fine la suite, il tema si trasforma grazie all'inventiva dei due chitarristi, mai paghi del loro inesausto rincorrersi attraverso aree musicali così fulgidamente evidenziate. La matassa sonora si dipana mai peccando di monotonia o mistificazione, inevitabile impasse per gruppi che rincorrono la propria stella cadente sulle note di assoli assurdamente tirati per i capelli. Sempre di Bob Diddley la seconda gemma, in apertura della seconda facciata, che a mio avviso si rivela la pietra angolare dell’edificio quicksilveriano. Ancora le chitarre le vere protagoniste, mai come ora in intesa, superbe nel creare quei fascinosi contrasti di clima sonoro, una girandola di atmosfere cristalline e di umori rabbiosi confluenti nella liricità di “Calvary”, uno dei massimi gioielli del rock. Questo disco, quasi interamente strumentale, registrato dal vivo, in parte al Fillmore West di San Francisco ed in parte al Fillmore East di New York, rappresenta senza alcun dubbio una delle testimonianze più significative di quel periodo compreso fra gli anni '65-69, in cui la generazione elettrica americana era costantemente alla ricerca di nuovi e più complessi moduli espressivi. (Enzo Fongi)
Da Pop Records Anno I – n. 7 (novembre 1973)

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