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Rock Recensioni WAXAHATCHEE – Saint cloud
 

WAXAHATCHEE – Saint cloud WAXAHATCHEE – Saint cloud

waxahatcheeKate Crutchfield ce l'ha fatta. Nata 31 anni fa nel profondo sud degli states (Birmingham, Alabama), e nutrita da subito a pane e musica rock dai genitori, già a quindici si esibiva in pubblico. Dopo alcuni album di impronta pop-punk in combutta con la sorella gemella Allison, nel 2012 adotta il nome di Waxahatcheee - dal nome di un fiume che scorre nella terra natia – e con questa sigla escono dal 2012 alcuni album parzialmente irrisolti, lacerati tra intuizioni melodiche e tentazioni noise; mai completamente a fuoco, come la vita della sua autrice, nel frattempo risucchiata nel gorgo della bottiglia. Ormai pensavo che non avrebbe più partorito il suo capolavoro, e quanto mi sbagliavo. E' riuscita a ripulirsi, percorso non privo di ostacoli e prezzi da pagare: "Se vuoi diventare sobrio, devi affrontare cose che sono state spinte in profondità e coperte dall'alcol per anni. E il mio cervello in questo momento è un posto spaventoso" ha dichiarato alla stampa.

Non si direbbe proprio, ascoltando questi pezzi; anche grazie al produttore giusto (Brad Cook) Kate ha trovato la sintesi perfetta , virando verso una classicità folk-rock senza tempo che in fondo non poteva che essere il suo approdo naturale, sebbene mediata ed attualizzata dalle esperienze indie del terzo millennio. L'album (un tempo si sarebbe definito un concept) ci accompagna attraverso un pellegrinaggio lungo i grandi spazi degli stati del sud, da Chattanooga Tennessee sino a Kansas City (ove oggi risiede), e se l'iniziale Oxbow, connotata da suoni sintetici, pare fuorviante rispetto al mood generale del disco, subito dopo arriva la prima vetta compositiva del lavoro, Can't do much, chitarroni jingle-jangle al vento e gancio melodico irresistibile.
Ascoltate poi l'effetto taumaturgico che la musica ha avuto su Kate in brani come Fire, Lilacs e War, aperti, solari, diretti e che, nel mondo che sogniamo, sarebbero baciate da continui passaggi radiofonici; certi passaggi armonici mi fanno ricordare addirittura un certo seminole di Gainesville, Florida (non che ce ne fosse bisogno, mi manca moltissimo ...), mentre Witches vira con decisione verso i territori battuti dai Fleetwood Mac nei seventies, ed il timbro vocale mi sembra ammiccare proprio a quello di Stevie Nicks (a proposito di streghe ...).
Ma in tutto l'album non c'è una nota da buttare via, un passaggio a vuoto, anche nei brani finali, come Arkadelphia, più tendenti al chiaroscuro e dove i nomi tutelari di Kate diventano i mostri sacri del cantautorato femminile a stelle e strisce (Joni Mitchell, Carly Simon); insomma, serissimo candidato a disco dell'anno, ed acquisto imprescindibile: bè, cosa ci fate ancora qui? (Gabriele Sclafani)

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