La partenza è di quelle da moderno folk radicale, ipnotico, seriale, ossessivo, nemmeno particolarmente variato nella sua "ottusa" e "ingolfata" iteratività, sembra quasi di sentire i Black Twig Pickers a contatto con una qualche tarantolata danza del nostro sud magico. Poi si entra in ronzanti territori catartici ancor più sperimentali, tra il ripetitivo minimalismo di matrice colta (Terry Riley, Steve Reich), un'elettronica d'antan dal procedere quasi rituale e voci sperdute di impronta nordica o addirittura "neoclassica". Violini morbidi e "molleggiati" tornano poi a dialogare con la vellutata "voce" di un harmonium indiano e una serie di sintetici suoni analogici, la cui circolare artificialità può ricordare la nobile ed euristica esperienza del kraut rock e al contempo le sperimentazioni più pop di un Alan Parsons (a venire subito in mente è "I Robot"). Ne risulta una sorta di neo-folk da camera, sospeso tra un'avanguardia rurale, prefigurante possibili primitivi scenari futuri (non necessariamente apocalittici: potremmo anche essere in un'oleografica tregua miyazakiana), e una sofisticata e lentamente pervasiva drone-music (giusto per rifarsi al ronzio di prima). Ma l'intento del chicagoano Jaime Fennelly e dei suoi collaboratori sembrerebbe prima di tutto di tipo contemplativo e naturalistico (per quanto aggiornato), ovvero sia riprodurre in musica, anche attraverso l'artificio, colori e sfumature tipiche del paesaggio, sì da realizzare persistenti e suggestive campiture sonore, capaci anche di riflettere la ciclicità degli eventi naturali. Un soundscape singolarmente composito e avvolgente, il loro, in perfetto equilibrio tra meditazione estatica e allucinazione profetica, creativamente sganciato dai più scontati schemi di molta della popular music contemporanea. Da ascoltare. (Marco Maiocco)
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