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Rock Recensioni EMERSON, LAKE & PALMER - Live At The Mar y Sol Festival Puerto Rico ’72
 

EMERSON, LAKE & PALMER - Live At The Mar y Sol Festival Puerto Rico ’72 EMERSON, LAKE & PALMER - Live At The Mar y Sol Festival Puerto Rico ’72 Hot

EMERSON, LAKE & PALMER - Live At The Mar y Sol Festival Puerto Rico ’72

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Live At The Mar y Sol Festival Puerto Rico ’72
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Quintessenza del rock progressivo sinfonico - e già questo la dice tutta, visto che erano solo in tre - i britannici Keith Emerson, Greg Lake e Carl Palmer sono tra le icone leggendarie del rock classico, quasi più conosciuti per il “brand” che da sempre i loro cognomi formano in successione, che per la loro musica immaginifica e visionaria, singolare mescolanza di note classiche, jazz e rock. Tra le critiche che hanno sempre dovuto sopportare vi era quella, certo non peregrina, di una eccessiva iperbolicità nella loro musica, che spesso poteva sfociare in una cattedratica cacofonia. Il loro sarebbe stato una sorta di barocchismo ipertecnologico, che era sì in grado di proiettarli in una celeste dimensione iperuranica, ma al contempo rischiava di allontanarli troppo dai comuni terrestri alle prese con le fatiche quotidiane, a causa di un’altisonante e roboante algidità. Questione di punti di vista ovviamente, gli appassionati del genere certo non si sono mai posti il problema, continuando a considerare la sacra triade come un punto d’arrivo insuperabile. Difficile dare loro torto. Vero è che in questo (prima d’ora) inedito concerto portoricano dell’aprile 1972, nell’ambito del “Mar y Sol Festival” - forse il più sconosciuto tra i grandi raduni rock di quel periodo - grazie anche ad una registrazione davvero formidabile, il trio dà l’impressione di dispiegare al meglio, nel modo fin qui più compiuto e avvolgente, l’intera sua poetica, trovando il modo di coniugare alla perfezione tecnicità ed espressività. Per la prima volta sembra scomparire del tutto quell’elemento di freddezza quasi fantascientifica che in qualche misura li ha sempre caratterizzati, complice probabilmente il caldo della primavera caraibica. Straordinarie le versioni di “Tarkus”, “Lucky Man”, “Pictures At An Exhibition” di Musorgskij, classici del loro repertorio affrontati, oltre che con la consueta maestria e sfrontatezza, con un‘inusitata allegria, lontana da certe cupe atmosfere millenaristiche, che hanno fatto da sfondo a molte delle imprese della magica formula ELP.

 

Chi scrive - perdonate l’ignoranza - ha da poco scoperto l’esistenza, ma forse è stata solo questione di risvegliare la reminiscenza, di un particolare e misconosciuto scritto di Ippolito Nievo, lo scrittore patriota del nostro Risorgimento, che foscolianamente ideava “Le confessioni di un italiano” ben prima che l’Italia venisse unificata; e tesoriere dell’impresa garibaldina, morto durante la spedizione dei mille in circostanze misteriose, a causa dell’oscuro naufragio del piroscafo “Ercole”, sul quale viaggiava con tutte le sue compromettenti carte. Ma la dietrologia sulla morte di Nievo ci porterebbe lontano, quel che invece al momento ci interessa è soffermarci un istante sul suo piccolo libello in questione dal titolo “Storia filosofica dei secoli futuri”, un breve romanzo pubblicato nel 1860, nel quale il narratore padovano tratteggia la storia futura dell’Italia dal 1860 fino al 2222, da lui definito il periodo dell’apatia. Una sorta di crepuscolare racconto fantapolitico e fantascientifico dai toni asimoviani, attraverso il quale Nievo inaugura sostanzialmente la storia della fantascienza italiana e probabilmente mondiale, ancor prima che Jules Verne raggiunga il grande riconoscimento internazionale con le sue fantastorie a proposito di viaggi, spedizioni ed esplorazioni immaginarie. Potremmo considerarlo un vero e proprio caso letterario. Leggere un simile romanzo ci porterebbe senz’altro a compiere una sorta di incredibile viaggio nel futuro del nostro passato, a contatto con una fervida, oggi quasi impensabile (eccettuati gli inquietanti romanzi di Tullio Avoledo), lungimirante visione. Lo stesso tipo di viaggio nel tempo che si intraprende ogni volta che ci si immerge nell’ascolto delle più classiche mirabolanti evoluzioni tastieristiche di Keith Emerson, il cuore pulsante del fenomenale trio. Il suo quasi profetico utilizzo delle macchine - negli anni ’70 immortalato alle prese con le sue gigantesche apparecchiature analogiche (tra cui il mitico sintetizzatore Moog) sembrava provenire direttamente da Marte - resta qualcosa ancora al di là da venire e forse da comprendere. Qualcosa che ancora oggi lo fa apparire più un musicista del terzo millennio che un nostro contemporaneo. Questa la forza prodigiosa e irripetibile della sua musica - dedita alla reinvenzione e non alla riarticolazione - e di chi lo accompagnava, certo in modo non subalterno. La capacità di visione, immaginazione, il sapere indicare vie ancora da percorrere, l’intravvedere un futuro, anche il più fosco, magari dominato dalle più cruenti battaglie mitologiche. Una straordinaria qualità restituita interamente da questo prezioso documento sonoro dal vivo, che ne rappresenta un’ulteriore luminosa e imperdibile testimonianza. Fino a qualche tempo fa girava una nota freddura, secondo la quale Palmer sarebbe morto perché caduto in un lago e mai più riemerso. Una battutaccia che, però, contiene un elemento di verità, perché è difficile tornare indietro al proprio tempo dopo essere stati letteralmente catapultati nel futuro più siderale. (Marco Maiocco)

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